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Rodolfo Montuoro celebra i miti dell’ascolto

Intervista a Rodolfo Montuoro di Gianluca Veltri


Torna a celebrare i miti dell’ascolto, Rodolfo Montuoro, con il suo nuovo album Acoustica, realizzato in tandem con il musicista Maurizio Marsico. Il settimo, coltissimo album dell’artista è un omaggio alla poesia che da Dante conduce a Metastasio...



Da quali suggestioni nasce Acoustica?

Acoustica, nelle mie mappe mentali e sentimentali – e persino nell’inconscio – è sempre esistita, assai prima del mio esordio discografico. Rappresenta il tronco e le radici, la mia preistoria. E contiene il lessico elementare del mio linguaggio interiore. Un lessico fatto di una scarna manciata di figure immaginali che tornano in maniera incessante e che, probabilmente, continueranno a risuonarmi dentro. Sono come delle coazioni a ripetere, delle ossessioni che cercano sempre nuovi travestimenti. Appoggiandomi a Jung, direi che Acoustica contiene, in una forma lampante e sintetica, i miei archetipi, i luoghi in cui alcuni simboli che abitano la mia mente (la mia anima) si sposano a una serie di emozioni ricorrenti. Ma le infinite cerimonie di questo sposalizio sono sempre diverse e differenti nella mia immaginazione: è un mutamento incessante che ogni volta mi salva.


È sempre stato interessato alla pura voce, al suono, e ora esce Acoustica. Cosa rappresenta nel suo mondo questa ricerca legata all’udito, all’eco, a Orfeo?

Il riferimento a Orfeo – cui, qualche anno fa, ho dedicato un album – è appropriatissimo. Orfeo, con la sua tragica odissea, rappresenta infatti uno di questi miei archetipi ricorrenti. Ed è l’incarnazione della potenza acustica. Con lui si celebra quella congiunzione ermetica che unisce strettamente la voce (o il suono) e l’ascolto.

In realtà, “acustica” è una parola speciale nel nostro dizionario di derivazione greca, perché sta a significare tutto ciò che ha a che fare col suono e indica sia la sua emissione che la ricezione. Ma quando parliamo dell’acustica di un luogo vogliamo anche significare l’ambiente che accoglie il suono e le disparate tecniche necessarie alla sua propagazione. Quindi, ogni volta che maneggiamo questa parola polisemica celebriamo quelle nozze alchemiche che – nella presenza del suono o della voce – legano indissolubilmente in una fascinazione profonda chi suona (o canta) e chi ascolta. Orfeo, nel mito, era l’artefice supremo di questa liason. Con la suggestione della lira e del canto era capace di ammaliare gli uomini, le vegetazioni, le rocce, gli animali. Persino gli dei e i custodi dei mondi inferi subivano la sua forza immediatamente “persuasiva”.

Orfeo, per questo suo potere, è uno straordinario unificatore.

Ma allo stesso tempo, egli rappresenta la perdita e il lutto perché, pur avendo liberato per un attimo la sua amata Euridice dalla morte per effetto delle sue destrezze “acustiche”, non riesce poi a tenersela con sé e la vede dissolversi nuovamente tra le tenebre dell’Ade.

Orfeo dunque – posata la lira – è anche un tremendo disgregatore. Il suo fallimento gli sarà fatale. Lui stesso finirà smembrato in mille pezzi dalle Menadi, inferocite dall’apatia del suo lutto e dall’indifferenza del suo canto triste.

In Acoustica può darsi che si ritrovino sprazzi, presagi e disiecta membra di queste intermittenze “orfiche”. Del resto, in ogni buon musicista dovrebbe esserci qualche lacerto di Orfeo.


In passato ha realizzato album completamente elettronici, sintetici. Il suono di questo album invece dà l’impressione di essere stato registrato con antichi strumenti in un’antica cattedrale.

Mi piace molto questo suo riferimento allo spazio acustico dell’antica cattedrale. Quello delle cattedrali, in un'epoca in cui non esistevano gli schermi del cinema e le tv, con gli affreschi, i dipinti, le scenografie e le grandiose vetrate, è uno spazio spettacolare che di per sé genera visioni, narrazioni, insegnamenti e mitografie. Come dicevamo, uno dei significati della parola “acustica” sta a indicare l’area in cui si propaga il suono. Per un lavoro come il nostro, la costruzione dello spazio non poteva non essere importante. Abbiamo agito in un “ambiente” sterilizzato dagli artifici digitali. Il disco è stato registrato con un “nastrone” a bobine Otari, in presa diretta e in un’unica sessione, senza soluzioni di continuità, senza il solito cut-up dei programmi di editing, senza regolazioni o missaggi. Grazie alla perizia tecnica di Andrea Tich abbiamo settato il microfono come un orecchio senza “protesi”, per mettere in scena ogni cosa. Come in un live. E hanno trovato un senso “musicale” importante anche le sincopi del respiro, i fruscii, lo scivolamento delle dita sul manico della chitarra, l’eco naturale della voce nella stanza, le vibrazioni incidentali, persino il ronzio di un moscone che si è perfettamente adattato alla “metronomia” del concertato… In effetti, abbiamo usato anche strumenti “antichi”. Ma non si tratta di liuti o quinterne. Sono piuttosto la Roland D50 e la Korg M1 (le tastiere che ha utilizzato Maurizio Marsico, insieme a un vecchio riverbero Lexicon LXP1), che ormai sono considerati dei reperti perdutamente vintage. Ciò nonostante, credo che in questo album venga a cadere la scolastica distinzione tra sintetico e acustico, almeno nelle mie intenzioni. Così capita che i tocchi synth di Maurizio talvolta diventano a tal punto essenziali e rarefatti che risalgono alla loro primitiva vocazione acustica, mentre talvolta i miei arpeggi di chitarra si meccanicizzano e si smaterializzano fin quasi a simulare il bit elettronico. Spesso, durante l’esecuzione, i due piani – quello acustico e quello elettronico – si invertono. Chi definisce questo album come un lavoro acustico non sbaglia. Così come non sbaglia chi lo definisce come un album synthpop.


Il lavoro è stato realizzato con Maurizio Marsico: come si è svolto?

Maurizio Marsico è un compositore geniale e trasgressivo, ma è anche estremamente rigoroso e sensitivo. Come tutti i veri musicisti, è un maestro dell’ascolto. Il suo è stato infatti un ascolto creativo, attento e sensibilissimo. Così è riuscito a entrare subito in sintonia con il progetto. Gli ha conferito quadratura e profondità. Ha saputo sincronizzarsi con leggerezza alle spinte centrifughe della mia chitarra e della voce, senza che ci fosse la necessità di tanti confronti. Tra di noi si parlava di filosofia o dello Spirito del Tempo piuttosto che di quello che stavamo portando avanti in musica. Il nostro dialogo musicale si dipanava a un altro livello, più telepatico o subliminale.


Perché ha voluto riprendere sue composizioni del passato e ridare loro nuova veste? Le parlavano ancora, sentiva che non erano “concluse”?

Quegli archetipi, quelle “figure immaginali” cui ho fatto cenno poco fa, mi parlano continuamente. Sono di certo conclusi e già fatti, come Minerva nella testa di Giove. Ma non posso fare a meno di riprodurli o di travestili in nuovi scenari o in altri contesti e orchestrazioni. È più forte di me. Sento la necessità di rimetterli sempre in scena nel mio anfiteatro interiore. E, ogni volta, è come se li scoprissi nuovamente. Del resto, è così anche per la nostra vita o per la musica stessa: sono pochi gli ingredienti fondamentali di un’esistenza umana, dodici i semitoni dell’ottava, ottantotto i tasti del pianoforte ma è infinita la gamma delle combinazioni che declinano le nostre esperienze nel corso della nostra vita, così come è infinita la musica che possiamo generare con quella scarna dozzina di note.


Musica e poesia sono intrecciate in un modo misterico, nelle atmosfere rarefatte e sfuggenti della sua musica. È la poesia che alimenta la musica?

Nel capolavoro di Goethe, quando il Faust riflette sull’inadeguatezza del celebre incipit di Giovanni “in principio era la parola” (o il Verbo), gli viene un’improvvisa ispirazione che gli fa esclamare: “in principio era l’azione”. Ecco, io proporrei di osare ulteriormente e direi “in principio era la musica”, prima ancora della parola, del Verbo, della poiesis, dell’agire. Per me, la musica viene sempre prima: è numerazione e regola, ispirazione, ars combinatoria. Il linguaggio poetico è, prima di tutto, linguaggio musicale. E se è vero che il linguaggio addestra il pensiero, esprimersi attraverso i codici rigorosi e immediati della musica significa abitare contemporaneamente tutte le dimensioni dello spazio e del tempo, immaginare tutte le vite possibili, vivere le emozioni di tutte le creature, non solo quelle umane, dialogare con tutte le forze della natura e persino con le divinità, sciogliere le barriere del sogno e perfino della morte. A dispetto dello spazio e del tempo. La musica, come diceva Lévi-Strauss, è l’unico linguaggio universale: essa non è traducibile ma è intelligibile da tutti, a qualsiasi latitudine del mondo. La poesia trae dalla musica questi poteri. E, quando si fa parola e passa, per così dire, allo “stato solido”, la musica diventa poesia.


La numerazione delle tracce del disco è senza titoli: anche in questa scelta c’è un preciso intento minimalista. Cosa rappresentano i “codex”?

Nel titolo di un’opera c’è un’intenzione descrittiva e conclusiva. C’è sempre l’ancoraggio a un significato, a una sintesi, a una definizione, a una direzione. Per i brani di Acoustica non può essere così. Essi sono piuttosto dei “codex”. I latini con questo termine indicavano il tronco dell’albero da cui si dipartono le disparate ramificazioni. Un tronco vivo continua sempre a creare nuovi rami e non possiamo prevedere la loro direzione. Mi auguro che questi miei “codex” possano far germogliare altre propaggini e suggerirmi nuove ispirazioni. Inoltre, disporre semplicemente i brani in una successione consecutiva (1, 2, 3 eccetera) significa aprirsi all’infinita combinazione del numero e degli elementi. Durante l’ascolto, ognuno, se vorrà, potrà inventare ogni volta il titolo che si addice all’umore o al suo “colore” del momento. Diciamo che questa del codex numerato potrebbe essere l’istigazione a un ascolto dinamico…


Oltre a Dante e Ottiero Ottieri ci imbattiamo soprattutto nel poeta barocco Metastasio: in che senso è una fonte di ispirazione per il suo lavoro, che invece è così minimalista?

Metastasio è stato per noi un magnifico pretesto ma anche una coincidenza biografica vissuta insieme a Maurizio Marsico (la raccontiamo in un’intervista a Diego Alligatore per il suo blog). Da questa coincidenza divertente e curiosa è nata una riflessione che ha ispirato l’intero progetto. Provo a sintetizzare. Pietro Trapassi, detto il Metastasio, è stato l’artefice di un connubio perfetto tra musica e poesia, in un’epoca in cui le derive retoriche del barocchismo e i nascenti vezzi pastorali dell’Arcadia rendevano molto difficile, se non impossibile, questa impresa. Eppure c’è riuscito, con naturalezza, genio ed eleganza. E così ha fatto germogliare i semi della forma-canzone.

In un album di canzoni consacrato alla poesia e alla sua inestirpabile natura musicale, l’omaggio al Metastasio era dunque d’obbligo.


Come ha trascorso l’ultimo anno e quale pensa sarà il lascito di questo tempo sul nostro futuro?

L’annus horribilis l’ho passato quasi interamente nel cuore di un bosco, lontano parecchi chilometri dal primo centro abitato, immerso completamente nella natura, nel suo silenzio, nella sua musica incessante, nel suo struggente abbraccio protettivo. Penso che il lascito più importante di questo tempo ingrato sia proprio il senso tangibile di quanto siamo tragicamente virali e contagiosi e letali gli uni per gli altri. E dunque, anche per questo, disperatamente concatenati e interdipendenti.



[Versione integrale dell’intervista di Gianluca Veltri a Rodolfo Montuoro, pubblicata su “Il Quodidiano del Sud” del 25 giugno 2021.]


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