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Apparizioni dell’assenza

Intervista a Rodolfo Montuoro di Gianluca Veltri


È tornato il raffinato musicista Rodolfo Montuoro che, con il suo nuovo album “Voices” (Believe Digital), licenzia un lavoro ricco di trame elettroniche spigolose e ammalianti. Tracce colte, in cui ci si imbatte in una diffusa letterarietà, da Lynch a John Ajvide Lindqvist, dalla mitologia a Woody Allen…



Sono trascorsi diversi anni dal tuo lavoro precedente. Cosa è successo nel frattempo?

Nel frattempo, c’è la vita… In realtà, in questi anni ho covato il progetto accumulando, immaginando, disfando, sfrondando e seminando come avviene per la coltivazione di un giardino. Ci sono state fughe, azzardi, battute di arresto, edificazioni, smantellamenti, rifacimenti… Ci sono state pause incalcolabili e improvvise accelerazioni. Sette anni sembrano tanti. Eppure, considerando – oltre a questo – tutto il certosino lavoro della “distillazione”, direi che sono stati un battito di ciglia. Del resto, i miei metabolismi poetici e musicali hanno sempre avuto un lunga durata. Quando mi imbarco in un nuovo progetto, amo concedermi il lusso di fermare le lancette.

Il tuo percorso, visto in prospettiva, possiede una sua coerenza: “a_vision”, il tuo primo album, era più morbido e etereo. Via via, i tuoi lavori sono diventati più spigolosi, come se tu volessi alzare l’asticella per gli ascoltatori. Come ti intravedi in queste tappe?

Ogni nuovo album dev’essere, necessariamente, l’immersione in un mondo differente ed estraneo, un’esplorazione, un perdersi. Altrimenti non ne varrebbe la pena. Almeno per me. C’è sempre una ricerca di “space oddity”. E, ogni volta, cerco di sporgermi più in là cercando di dare gas alle mie sonde musicali, alle mie cosmonavi che sono fatte di stratagemmi balistici, di spinte pneumatiche, di marchingegni a tempo. Poi comincia la pesca delle sonorità, delle stranezze, delle voci, dei suoni che per me sono come paesaggi. Se vuoi davvero esplorare, lo scenario dev’essere sempre differente. Così, attraverso la musica e la poesia, mi trovo ogni volta nella necessità di creare dapprima luoghi ignoti, spazi sempre più arredati e complessi, per poi percorrerli in un vagabondaggio che si risolve quasi sempre in un colossale smarrimento. Non voglio alzare l’asticella. Tutt’altro. Ma, se è così straniante per me, non oso neppure immaginare come potrebbe essere per i due o tre sconsiderati che si prendono la briga di ascoltare o di avere minimamente a che fare con la mia musica.

Il titolo del disco evoca la potenza e l’importanza della voce, e del resto un tuo disco precedente era dedicato a Orfeo: la musica è fatta di note, parole e, appunto, voce. Cosa attribuisci alla voce, quale significato recondito e – per usare un termine montuoriano – “indicibile”?

Non amo il paradosso, ma sono veramente convinto che la voce sia l’espressione più potente dell’indicibile. L’indicibile non si annida nel silenzio: è nella voce stessa, capace di innumerevoli inganni e travestimenti, lapsus, rimozioni, eco, profondità, rivelazioni. Può contemporaneamente dire qualcosa e trasmettere o far intendere qualcos’altro, può anche celare il suo desiderio o le sue intenzioni. Questo pensiero mi è tornato in mente rileggendo i “saggi radiofonici” di Ingeborg Bachmann che è riuscita ad azionare il pericoloso interruttore filosofico “dicibile/indicibile” insieme a Wittgenstein. I maestri della psicoanalisi (a partire da Freud e fino a Lacan) hanno saputo valorizzare e monetizzare questo paradosso. Ma, ancor prima, i grandi autori della tragedia hanno estratto magistralmente l’indicibile dalla voce. Attenzione, però: nell’indicibile c’è sempre una fatale complicazione, non c’è mai la soluzione o l’alternativa. Nell’Eracle di Euripide, dopo il grande eccidio, risuona la battuta sfinita del Messaggero: “È un dolore che non si può dire con le parole”. Al netto delle parole, c’è la voce. La voce con il suo canto muto che declina il dolore, la follia, la sopportazione dell’esistenza, la vita stessa. Cerca di andare oltre, ma non sempre può riuscirci. Ed è questa la vera tragedia. Emma Dante, ultimamente, ha saputo far intendere tutto questo attraverso le urla laceranti dei personaggi (e del coro) nella sua versione al femminile dell’Eracle, “eroe del niente” proprio perché indicibile è la sua azione.

A suggello di ciò, l’inizio e la fine del disco sono due tracce recitate, dal titolo “Fall City“: pura voce, dell’attore Roberto Pedicini, “nuda e cruda phoné” la chiami tu. Cosa contiene questo omaggio a David Lynch e alla Fall City di “Twin Peaks”?

Di Lynch mi ha sempre impressionato la libertà creativa. Una liberta “assoluta”. Letteralmente assoluta. Penso all’etimo. Absolutus, assolto, sciolto da ogni laccio. Così è Lynch. L’artista absolutus. Se il pittore è condizionato in ultima istanza dalla sua tavolozza di colori, seppure innumerevoli; se lo scultore è sempre soggiogato dall’attesa che la pietra gli parli; se il musicista o l’architetto sono sempre alle prese con lo strumento o con l’attrezzo (non parlo dello scrittore perché, dall’avvento ormai trionfante dello show, don’t tell, è già da tempo avvenuta la sua estinzione), Lynch ha saputo incorporare la macchina da presa nel cuore della sua immaginazione e del suo inconscio. Un inconscio individuale e allo stesso tempo collettivo (“Twin Peaks”, infatti, secondo me, coniuga sia la declinazione freudiana che quella junghiana dell’inconscio). Un cortocircuito più fatale di una bomba all’idrogeno. Io ho cercato di tradurre questa lezione così inimitabile e seduttiva in phoné, pensando alla voce come a una macchina da presa. Ci sono riuscito? Non ci sono riuscito? Non so. Non mi importa. Ma un’operazione del genere pretendeva una voce unica e speciale. L’ho trovata in quella di Roberto Pedicini. Così è avvenuto uno strano e irripetibile evento e la sua voce ha cominciato a generale immagini. Nitide, inattese, inafferrabili.

L’album è fatto di suoni rotti e rarefatti, dissonanti. Le tessiture elettroniche ricercate e complesse sono sovente accompagnate da strumenti tradizionali come il boukuzi, il mandolino, il doudouk, strumenti a fiati. L’equilibrio finale è sorprendente: assomiglia a quello che avevi in mente, oppure ha sorpreso anche te?

C’è sempre qualcosa di sorprendente (di commovente) quando si conclude un lavoro collettivo. “Voices” è stato un concertato di tanti corpi “sonanti”, di tanti cuori e intelligenze, di tante destrezze. C’è molta elettronica in questo album, ma c’è anche tanta musica giocata con le mani e coi polmoni. L’equilibrio finale è come il mistero dell’alchimista. Non so cos’è stato. So soltanto che gli apporti di Roberto Pedicini, Silvia Fontani, Massimo Giuntini, Tommaso Leddi, Emiliano Garofoli, Marco Fedrigolli, Sabrina Zanetti, Fabio Puglia, Carla Zerbi e Francesco Marangon (con il suo inimitabile segno grafico) hanno dato il senso giusto al progetto. Anche chi non ha materialmente suonato ha offerto il suo colore e il suo carattere. C’è soprattutto Giuseppe Scarpato che ha saputo perfettamente incarnare, nei miei precedenti album e anche in questo, in maniera sempre nuova, sempre sorprendente, il mio mito del musicista eclettico, vibrante, virtuoso, colto, esperto, visionario. E, last but not least, c’è Cat, Catherine Alice Corelli, che ha impresso in ogni brano il marchio del suo genio sulfureo.

Ci racconti il metodo di lavoro utilizzato con Catherine Corelli, a cui hai demandato la produzione artistica e la maggior parte dei suoni elettronici?

C’è stato un colloquio quasi onirico, subliminale, sempre a distanza, sempre a dispetto dei fusi orari. Non parlo per metafora. Abbiamo lavorato veramente agli antipodi. Lei a Mosca, io tra Milano e Firenze. Proprio per questo, ogni momento è diventato prezioso e anche le inevitabili intermittenze della lontananza, alla fine, sono state provvidenziali e motivo di fruttuose rielaborazioni e ispirazioni. C’è anche da dire che senza il web non avremmo mai potuto concludere un progetto così impegnativo. Pensando a questi incontri che la Rete ci regala, mi viene sempre in mente che Hegel non aveva poi così torto quando teorizzava lo Spirito Assoluto. Forse finalmente si è realizzato, se le persone possono condividere così profondamente i pensieri più impalpabili senza la necessità di essere fisicamente compresenti. Ma, senza scomodare Hegel e semplificando, potrei dire che per me Cat è stata la “reale” incarnazione del perfetto compagno di ventura, presente in quanto assente, nella mia ingarbugliata scorribanda poetica e musicale.

Le tue liriche sono, come le musiche, sfuggenti e elaborate. Ogni brano sembra voler assumere un punto di vista “altro”: lo smarrimento, l’inquietudine, la molteplicità. Dallo straniero di Africa al dialogo fatto della costante dialettica tra assenza & ricerca tra padre e figlio in “He’s Lost”; dall’angelo recalcitrante Samael fino ai vampiri di “Blood Story” ispirati allo scrittore svedese John Ajvide Lindqvist.

Se c’è un filo conduttore in Voices”, non può che essere la tensione ininterrotta tra assenza e presenza. Ritroviamo questo motivo in tutti i brani, declinato in tutti i possibili registri sentimentali. Così, dal calderone ribollente dei testi e delle trame elettroniche, emergono tante figure mitografiche, come spesso capita nei miei lavori. C’è lo straniero, il demiurgo, l’ebreo errante, l’erede diseredato, il vampiro, il puer aeternus, lo spasimante, l’angelo ribelle, il mutante, il replicante e anche qualche eroe in incognito dei tarocchi. Recitano tutti la distanza, l’abbandono, lo smarrimento, la ricerca, lo stupore, il disincanto, la nostalgia, il desiderio. Sono, insomma, tutte apparizioni dell’assenza.

E poi, “Le metamorfosi” e “Zelig” (che segna un ritorno a sonorità più folk) sembrano esprimere l’inevitabilità della frantumazione, anche quella personale, nel rivolo di tante sfaccettature. Facciamo solo finta di essere uno?

Credo che l’abbandono dell’identità sia stato un grande sollievo che il “secolo breve” ci ha regalato in eredità. Il culto dell’identità ha covato i nazionalismi, i sovranismi, e ha determinato delle vere e proprie catastrofi nel Novecento. Ma anche la sua successiva “crisi” è stata uno sfacelo, così che geniali filologi poi diventati filosofi sono impazziti abbracciando un cavallo oppure si sono lasciati vincere da un irresponsabile relativismo o semplicemente sono sprofondati nel soliloquio o nel culto di sè. Woody Allen ci ha insegnato che possiamo anche beffarci dell’identità e che il suo Zelig può indossare qualsiasi maschera. È una bella lezione: possiamo finalmente sorridere sia dell’identità che della sua frantumazione. Il mio Zelig, a dire il vero, ha più la fisionomia tragica di un Buster Keaton perché di queste cose si può sorridere, certo, ma sono sempre il sintomo di una ferita continuamente sanguinante nel nostro mondo, di un colossale bisogno di amore e di riconoscimento. E le vite parallele che mettiamo continuamente e disperatamente in scena sui cosiddetti social confermano questa dimensione tragica dell’identità.

Uno dei brani focali del disco a me pare “Occidente”: la frattura dei tempi è riprodotta nel suono che si arresta e riparte a fatica. “Sono finite le notti”, tu canti in un canto di dolore e rimpianto. Cosa comunichi?

Mi sembrava il modo più diretto e lampante per sintetizzare in una manciata di secondi il senso di questo squarcio nel nostro mondo, anche per l’assalto di ciò che preme ai confini: le guerre, la povertà, la desertificazione, le migrazioni, il terrorismo. (Cerco, simmetricamente, di seguire questa frattura anche in un altro brano del disco, Africa.) L’Occidente è decadenza. La parola stessa richiama l’occasus solis, il tramonto. Più volte, storici e filosofi hanno proclamato il “declino” dell’Occidente, annunciando la fine della civiltà, della ragione, della politica, della coesione familiare, dell’identità sociale. Il sole è tramontato tante volte, certo. E sono sempre sorte nuove aurore. Ma il declino che oggi viviamo nel nostro angolo di mondo forse è ancora più profondo, si è insinuato nei pensieri, negli affetti, nei comportamenti, nei sentimenti: è una ruggine che corrode intimamente le persone, gli individui: così che sono continuamente indotti a mascherarsi, a mentirsi, a tradirsi, a confondersi, a deturparsi, a cospirare, a non esserci, a farsi male senza motivo, a diffidare, a chiudersi, a rinnegare nella paura o nel narcisismo l’incanto degli incontri. Non soltanto il sole è tramontato in Occidente: sembra che siano finite anche le notti.

Vedi “Voices“ più come un approdo o come l’inizio di una fase nuova?

Spero che Voices sia l’ultimo approdo. Davvero. Credo infatti che il momento più importante di ogni gesto artistico sia il suo compimento, cioè la convinzione di dire “basta, quello che dovevo dire l’ho detto, quello che dovevo fare l’ho fatto”. Così, ogni volta che chiudo un disco, ho sempre il sereno desiderio che sia l’ultima fatica, il canto del cigno. Poi, improvvisamente, quando meno te l’aspetti, succede qualcosa... Chissà se per me sarà ancora così.

[Versione integrale dell’intervista di Gianluca Veltri a Rodolfo Montuoro, pubblicata su “Il Quodidiano del Sud” del 1giugno 2018. Illustrazione originale di © merendinacontiffany per il booklet di “Voices”. Courtesy of Sabrina Zanetti]

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