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Il passo oltre lo specchio


Intervista a Rodolfo Montuoro per “Music Map”, aprile 2021


Ciao Rodolfo, piacere di averti qui!

Il piacere è mio, grazie per l’invito.


La tua figura è avvolta da una sorta di alone di mistero. È una tua precisa scelta artistica?

Se è vero che c’è del mistero, si tratta insieme di scelta e carattere. C’è del “carattere” perché, per mia natura sono abbastanza schivo e cerco sempre di presentarmi con quello che faccio piuttosto che con la mia “identità” (che, per me e per tutti, è comunque e pur sempre una maschera). Credo che l’esibizione dell’identità sia letale. È all’origine del caos, del vaniloquio, del pregiudizio e del conflitto. Ma – cosa più grave – è anche molto, molto noiosa. Per questo, ma anche per come sono fatto, ho sempre nutrito un’invincibile inclinazione al dileguamento. Questa inclinazione si è tradotta in una serie di scelte dettate da un paio di regole inflessibili: porta sempre avanti il tuo lavoro ma tu non apparire, non parlare mai se non c’è qualcosa di nuovo o di importante da dire o se non sei chiamato direttamente in colloquio. Certo, nell’epoca in cui si celebra l’apoteosi dei social e del mainstream, non è facile. Ma c’è anche lo speciale vantaggio di abitare un giardino segreto, di coltivare una distanza che ti permette di agire “oltre”, di fare il passo al di là dello specchio, di vedere le cose diversamente e di fartene carico in maniera più incantata e profonda.


È da poco uscito il tuo ultimo lavoro “Acoustica. Codex Metastasio Post Box”: un titolo particolare per un progetto molto interessante. Come mai hai scelto questo titolo?

Il titolo è stato decisivo. Anzi, potrei anche dire che questo album non poteva venire alla luce se non quando – dopo tanto tempo – si è finalmente “manifestato” il titolo. E il titolo ha conferito un senso esatto all’intero lavoro. (Per i miei album precedenti, invece, è avvenuto esattamente il contrario.) In questo titolo ci sono tante “note”, come nella composizione di un profumo. C’è una curiosa coincidenza vissuta a Milano, insieme a Maurizio Marsico, all’inizio degli anni Novanta (l’abbiamo raccontata recentemente in un’intervista a Diego Alligatore per il suo blog). E c’è un’evocazione quasi medianica del poeta Metastasio, per celebrare con lui e a dispetto dei secoli, le nozze alchemiche tra la musica e la poesia. Ma il Metastasio, oltre a essere per noi un minuscolo frammento di biografia, oltre a essere una convocazione ironicamente “spiritica”, è stato anche un espediente retorico, un ossimoro che abbiamo voluto utilizzare per definire il senso della nostra operazione musicale e poetica, ovvero: tanto il Metastasio è stato barocco e spettacolare, impressionante, altisonante e sontuoso quanto il nostro lavoro vuole essere minimale, elementare, scarno e asciutto, vòlto all’essenziale ovvero alla primaria radice “acustica”, cioè a quel legame primitivo e potentissimo che stringe in un nodo fusionale i tre bandoli della matassa: il suono, chi lo emana e chi lo ascolta. Come in un perfetto sortilegio.


In questo disco ha partecipato anche Maurizio Marsico. Come è nata questa collaborazione? Qual è il suo apporto in “Acoustica. Codex Metastasio Post Box”?

Conosco Maurizio da molti anni. Ci siamo incrociati al di là della musica, perché è una figura poliedrica, direi per questo “settecentesca”, che frequenta da sempre tutti gli ambiti della produzione culturale: l’arte figurativa, il design, la comunicazione, la scrittura, il cinema, la televisione… Incarna perfettamente una mia idea paradigmatica del musicista che dev’essere colto, curioso, sensibile e tellurico, profetico, affabulatore, carismatico. La biografia che gli ha recentemente dedicato Christian Zingales, Life on Marsico. Ascesa, caduta, ricadute e risurrezioni di Maurizio “Monofonic Orchestra” (Edizioni Goodfellas, Firenze 2019) dà conto delle sue innumerevoli incarnazioni e sfaccettature. Direi che, in questo lavoro, abbiamo portato avanti una “conversazione” in cui i suoi tocchi elettronici, i suoi richiami sintetici, hanno dialogato senza posa con la mia voce. Ma, come avviene in ogni buona conversazione, c’è stato uno scambio dei ruoli e vale anche il contrario. Infatti, nel disco, l’elettronica delle tastiere è sempre in cerca della sua ancestrale provenienza acustica e così rasenta il silenzio, mentre l’acustica della mia chitarra tende spesso alla simulazione del bit elettronico e, così facendo, va incontro a una metastasi meccanica che procede fatalmente verso l’estinzione del suono. Insomma, è come se ci fossimo dati appuntamento su una soglia in cui, finalmente, dopo aver detto e musicato quello che per noi è l’essenziale, non c’è più nulla se non appunto il silenzio.


C’è una grande ricercatezza nel suono di questo disco. Come siete riusciti a creare queste precise sonorità?

Il disco è stato registrato in presa diretta con un registratore a bobine Otari, in un’unica take. Quindi, senza tagli o cuciture. In una dimensione totalmente analogica. Volevamo creare uno spazio naturale, un unicum irriproducibile, un effetto “live” senza interruzioni che si percepisce fortemente nel disco. L’obiettivo era creare in vitro naturalezza e immediatezza, conservando e valorizzando anche le imperfezioni, le sincopi, i “contrattempi” della performance. Questa era l’intenzione mia e di Maurizio Marsico e, per creare questo effetto, ci siamo concentrati molto sia prima che durante l’esecuzione. Certo, come ci insegnano il Faust e il suo demone, per riprodurre o eternizzare l’attimo così com’è ci vuole – oltre alla concentrazione – anche una certa perizia alchemica. Per questo è stato fondamentale l’apporto di Andrea Tich che ha curato la ripresa, non solo con la maestria dell’engineering del suono, ma soprattutto con quel “sesto senso” che gli deriva dal suo temperamento artistico.


I 10 brani che compongono il disco non hanno un vero e proprio titolo ma si chiamano tutti Codex seguito dal numero del brano. Come mai?

Qui ogni canzone contiene un “codice” del mio lessico elementare. E l’album accoglie, dunque, una manciata di codici o di “immagini poetanti” – chiamiamole così – che si ritrovano in tutta la mia produzione, come un tic persistente, una manìa. Come si fa a dare un titolo specifico a ognuna di esse? Qualsiasi titolo le avrebbe ancorate a un concetto, a un significato. Queste immagini, invece, devono restare vaghe, sfocate, polisemiche e polisonanti perché questa, per me, è sempre stata la loro natura generativa. Così, le ho semplicemente numerate. Del resto, la numerazione può anche essere un’istigazione all’ars combinatoria. E, infatti, volendo seguire nella fruizione del disco un’altra sequenza dei brani rispetto a quella della tracklist, una diversa combinazione dei numeri, cambia in maniera sensibile anche il senso del concertato, cambia l’atmosfera e il percorso immaginale dell’ascolto.


Nei tuoi lavori ci sono sempre diversi rimandi e citazioni culturali provenienti spesso dalla letteratura e dalla poesia. Come mai Metastasio questa volta?

Metastasio – con il suo barocchismo – è stato poco più che un pretesto in Acoustica. Un pretesto comunque necessario. Lo abbiamo evocato per rappresentare un certo modo di intendere il rapporto stretto tra musica e poesia. In effetti, il mio modo è agli antipodi e tende alla generazione di immagini semplicissime, scarne, nude. Nel disco si consuma un piccolo colpo di scena perché i poeti convocati, a partire dal Dante dei Sonetti, quelli che sento più vicini al mio modo di comporre, rappresentano proprio l’opposto del barocchismo nella loro sobria e incisiva potenza, nella loro tendenza a sottrarre più che a cumulare. Ma la tecnica compositiva del Metastasio, la sua capacità “artigianale” di annodare inestricabilmente nelle sue arie il testo alla melodia così da far sembrare naturale l’intreccio, il suo talento nell’improvvisazione libera e l’elegante destrezza nel saccheggiare (e così far rivivere) l’arsenale della tradizione, resta comunque una grande lezione di stile che ha impresso un canone al melodramma e, per filogenesi, anche alla forma-canzone.


Come definiresti il tuo universo musicale e poetico?

Non posso farlo io stesso, anche perché – in generale – sono sempre stato molto refrattario alle definizioni. Posso solo dire che questo “universo” cambia ogni volta che preparo un nuovo progetto e ciò complica ulteriormente le cose.


Nel tuo processo compositivo, viene prima la musica o i testi?

Per me, la musica viene sempre prima ed è alla base di ogni testo, di ogni cosa. È nel respiro, nel battito cardiaco, nel dialogo interiore, nella scorribanda dei pensieri, nella parola condivisa, nella conversazione, nell’ascolto, nella lettura, nella voce, nel canto, nell’invocazione, nella maledizione, nella lamentazione, nell’ordine matematico, nei movimenti della natura, nel silenzio… È esperienza fisica e allo stesso tempo spirituale. È linguaggio universale. Ed è uno strumento potentissimo di nuova conoscenza. Le parole e le idee servono solo a lastricare una strada che è comunque segnata e spianata originariamente dalla musica.


Mi sembra doveroso citare un’altra grande artista che ha collaborato al disco, ovvero la bravissima soprano Anna Zoroberto in “Codex#010”. Cosa sta a rappresentare questa sua magnifica ed emozionante voce proprio a chiusura del disco?

Quando penso ad Acoustica mi viene spesso in mente il simbolo dell’ouroboros, un serpente che flette il suo corpo, a disegnare un cerchio in cui la testa si unisce alla coda. L’ultimo brano è così: conclude necessariamente l’album ma rappresenta anche l’indiscutibile punto di partenza. Il testo del brano riporta integralmente una splendida e lampante poesia di Ottiero Ottieri che si intitola Non si dimentica, fatta di poche righe e ispirata alla bellissima figura della nipote Elisabetta, scomparsa ad appena ventitrè anni. Questi quattro versi trattengono nella loro profondità un dolore insopportabile e atroce eppure sprigionano vita, luce, leggerezza: tutto il contrario dell’ombra o della morte. E rappresentano al contempo una delle più esatte e rare definizioni della Poesia. Come esprimere tutto questo? Impossibile senza la voce unica e intimamente toccante di Anna Zoroberto. Anna è sicuramente una tra le più belle voci mai sentite nei nostri teatri lirici, al pari se non ancora più emozionante della voce di Maria Callas. Provo, oltre alla stima e all’apprezzamento per l’artista, anche un grandissimo sentimento di gratitudine per lei perché “chiude” Acoustica come meglio non si potrebbe immaginare ma, nel movimento acrobatico e “uroborico” che riesce a inventare col suo canto, “riapre” nuovamente al sortilegio della poesia.




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