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Dal silenzio

Intervista a Rodolfo Montuoro di Maria Grazia Rozera, “Music Coast to Coast”


Un’intervista interessante e colta, profonda, intensa come solo un artista come Rodolfo Montuoro poteva essere in grado di tenere. Lo ringrazio per l’eleganza dei suoi argomenti e il garbo delle sue emozioni. Abbiamo indagato insieme negli anfratti problematici della phoné, attraverso un disco come “Voices” che, di certo, è un esempio di sperimentazione, strumentale e testuale, e con cui il nostro Rodolfo rimane alla ricerca perenne della sua vera voce.

È un piacere poterti fare qualche domanda su “Voices”, un album che ci ha rapiti non solo musicalmente, ma anche, e soprattutto, emotivamente. Raccontaci la genesi, l’impulso, lo studio, ciò che ti ha condotto alla ricerca di questa voce perfetta.

Sono sempre stato impressionato dalla voce, non solo quelle altrui o intorno a me, verso cui sono sempre stato ipersensibile, ma dalla mia stessa voce che si arroca, si inceppa, si impasta, si sporca, cambia di colore, si riveste continuamente di umori, sentimenti, affezioni, pensieri. Come capita a tutti. Penso addirittura che il mio primo approccio “attivo” alla composizione, ancor prima di percepire la musica come effetto di un’attrezzatura meccanica (le tastiere, le pelli, le corde, i fiati eccetera), sia avvenuto direttamente attraverso la voce. In questo lavoro sono dunque tornato, con un grande senso di devozione e di gratitudine, alla mia “prima volta” musicale: la voce umana, appunto, che porta sempre in sé una varietà pressoché inesauribile di nuances, toni, timbri e un’estensione modulatoria e armonizzante assai più plastica di qualsiasi altro strumento musicale. Ma non è solo questo: la voce è l’espressione della nostra unicità, della nostra identità ed è capace di scavare nella profondità del senso (mentre invece, per dirne una, la parola scritta si ferma al significato e raramente – se non in poesia – riesce ad andare oltre). Nel mio ultimo album ho cercato di declinare questo piccolo grappolo di idee sulla voce, così che – da mero “strumento” – essa è diventata “sovrana” dell’intero progetto.

È passato del tempo da “Nacht”. Cosa è cambiato nella tua musica e dentro di te? Come si cresce, quando si è già ‘grandi’?

Per me è molto difficile percepire il “mio” cambiamento e spesso, quando sono costretto a pensarci, ho l’impressione di recitare dentro di me sempre lo stesso discorso, le stesse invocazioni, le stesse domande, le stesse maledizioni (o stupori) del presente. E forse è anche giusto che sia così: diciamo che può essere una genuina questione di stile, di fedeltà alla propria visione del mondo. In effetti, è come quando ci guardiamo allo specchio. Sembriamo sempre uguali, ogni giorno gli stessi. Eppure c’è una grande differenza tra il nostro viso liscio e la polaroid di vent’anni dopo, anche se non ce ne avvediamo. Solo gli altri possono dire, a distanza di tempo, come siamo cambiati, quanta vita si è rattrappita sui nostri volti. Ma c’è dell’altro, per fortuna. La musica non è come la scrittura. Non è l’esercizio solitario allo scrittoio, nella stanzetta o nella turris eburnea. Quando si fa musica c’è un inevitabile e felicissimo confronto aperto a più voci in ogni fase del processo compositivo: ci sono gli altri musicisti, soprattutto, che concorrono con genio, anima e immaginazione. Ci sono sempre tante menti attorno a un disco, fin dall’inizio, e sono proprio le persone ingaggiate in ogni nuovo progetto che, per me, fanno la differenza e marcano il tocco magico del “cambiamento”. Sia quelle che si aggiungono per la prima volta che quelle che invece tornano – arricchite di sempre nuova esperienza.

Siamo nel regno impalpabile della phoné, scrivi nella presentazione del disco. Il riferimento alla phoné è un azzardo fondamentale. Il tema è di importante difficoltà e tendenziale pericolo, data la sua complessità. Si può definire una scelta che ti ha dato il tormento o che invece, come spesso accade con tematiche così profonde, ha aumentato le tue inquietudini?

Phoné… Avrei voluto usare un’altra parola, magari più familiare e terra-terra, ma mi sono reso conto che non c’è un corrispettivo, che non è immediatamente traducibile. In ebraico potrebbe esserci un equivalente: nel racconto biblico la creazione dell’universo avviene attraverso il “qol”, il potente e vibrante soffio vocalico di dio, antecedente a ogni parola e a ogni suo significato. Il qol potrebbe essere la phoné dei greci: comprende voce umana e divina e quella di ogni essere vivente, fino a intendere qualsiasi suono proveniente dalla natura. Ma, fuori dal mito originario, nel momento stesso in cui questo termine appare nella polis, avviene la sua rimozione. Così la phoné, nella patria platonica e aristotelica del logos, diventa phoné semantiké, sempre associata a un significato, a una tecnica, a un discorso, a un voler dire qualcosa. In “Voices”, nel mio piccolo, ho cercato di togliere la semantica dalla voce, come ha fatto ai suoi tempi in teatro (e in modo inimitabile) Carmelo Bene. Così essa si è liberata in tutta la sua potenza creativa e destabilizzante. Il risultato è stato sorprendente anche per me e, di certo, ha alimentato, oltre a quell’inquietudine che naturalmente si accompagna a qualsiasi gesto artistico, uno squilibrante effetto centrifugo, moltiplicativo del pensiero e dell’immaginazione.

In ogni brano di “Voices” utilizzi sempre strumenti musicali diversi che si affiancano, appunto, alla voce, strumento, comunque, privilegiato. Dando vita a nuove ipotesi di rock, hai così tradotto la tua ispirazione. “Zelig” e “Passi”, da questo punto di vista, sono le tracce che mi hanno attirato maggiormente. Come lavorano insieme, nelle tue composizioni, musica e parole per l’intero processo creativo?

Nel rapporto tra parola e musica si gioca, secondo me, una definizione conclusiva della poesia che è parola e musica insieme. Per me non esiste la differenza tra musica e parola perché ogni vocabolo è scelto per la sua valenza fonetica e ritmica. Certo, la ricerca del lemmario è così laboriosa che innesca un processo abbastanza complesso e anche paradossale di distillazione, così che è la musica a prendere le redini della narrazione, a raccontare o a generare immagini, mentre la parola fornisce il tono e l’accento. Proprio per questo è importante, nei miei brani, che la parola abbandoni la pelle del suo significato per farsi “voce”, phoné. Ma, se la parola perde il suo significato letterale, si riveste invece di tutte le risonanze “semantiche” e subliminali della melodia, potenziate dall’uso – anch’esso narrativo – degli strumenti musicali, scelti di volta in volta per ospitare lo scenario adatto a ogni racconto.

La collaborazione con Roberto Pedicini, storica voce del Truman Show, che legge magistralmente “Fall City” è straordinaria. Il pezzo, omaggio a Lynch, è all’inizio e alla fine del disco. Mi interesserebbe parlare un po’ di più di questa elegia/bonus track e del legame tra te, la tua scrittura e musica e queste parole e realtà che vengono alla luce da essa.

Nella bonus track non c’è più musica: c’è semplicemente la voce di Roberto Pedicini che emerge dal silenzio e interpreta il testo poetico. Un testo esteso che dura quasi sei minuti. Questo apparente blackout permette di valorizzare e illuminare la potenza suggestiva della voce così che, anche se non capisci la trama, sei comunque catturato dal flusso “phonético” e non vedi l’ora di passare anche tu da un’immagine all’altra, seguendo semplicemente il magnetismo della vocalità. (Lynch, nel visivo, è stato un maestro nella provocazione di questi effetti.) Certo, un esperimento simile non avrebbe senso senza la voce unica e speciale di Roberto Pedicini che è capace di far risuonare il “qol” in ogni parola, facendo emergere la tavolozza dei suoi suoni impliciti e delle sue coloratissime risonanze sentimentali. In questa voce c’è sempre, come direbbe Roland Barthes, “la materialità del corpo che sgorga dalla gola” e ciò provoca un ulteriore legame simpatetico durante l’ascolto. Ma, oltre a questo, il risultato è che, senza suonare neppure una nota, emerge in maniera ancor più sensibile la trama musicale del testo.

Ormai sono mesi che “Voices” è venuto alla luce (ricordiamo, per Believe). Come si sta rivelando il seguito e le conseguenze della sua evoluzione? Cosa ti sta appassionando maggiormente dell’impatto con gli ascoltatori?

Sì, la versione per gli stores digitali è uscita a maggio per Believe Digital. La versione “fisica” del cd nei negozi avverrà in tardo autunno per AiMusic. Ma il risultato è già sorprendente. C’è un’accoglienza sontuosa da parte della critica attenta al mondo indie. Ma quello che mi emoziona maggiormente è l’estrema diversità e sincerità delle letture, come se “Voices” abbia offerto a ogni ascoltatore un grumo di emozioni e di riflessioni molto personali, addirittura intime e proprie, come se abbia parlato direttamente a ciascuno e toccato la sua amigdala. E io stesso mi sono sentito felicemente scavalcato rispetto alle mie intenzioni compositive. Del resto, è giusto che sia così. Compiuta l’opera e offerta alle vite degli altri, l’artista deve sparire, tornare in ascolto, lasciare il posto al “rivissuto” altrui e alle interpretazioni – senza più mettersi in mezzo.

Un’ultima curiosità: quale Voce avresti voluto avere?

La mia. Infatti sono sempre continuamente in cerca della mia voce.




Intervista a Rodolfo Montuoro di Maria Grazia Rozera, “Music Coast to Coast”, 2018

Illustrazione originale di © merendinacontiffany per il booklet di “Voices”. Courtesy of Sabrina Zanetti.

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