Intervista a Rodolfo Montuoro di Gianluca Veltri, “Mucchio Selvaggio”
Rodolfo Montuoro, finalmente è “Nacht”. E quindi uscimmo a riveder le stelle. Tutti parlano di “progetto”, al giorno d’oggi, la parola è logorata. Ma nel caso dell’ultima fatica di Montuoro, si può dire sia il suggello di un progetto lungo e impegnativo. “Nacht” (Believe/Egea) è infatti la terza tappa, che fa seguito a “Orfeo” e “Lola”, e rende compiuto un percorso di questi ultimi due anni. È quanto mai stimolante una chiacchierata con lui, “distillatore clandestino” di suoni e parole, artista colto a 360 gradi, su questo suo viaggio al termine della notte.
foto di © Cristina Mugnaini
Ci parli di questa idea insolita, di com’è nata e come si è sviluppata? Tutto in digitale, online.
L’idea è nata spontaneamente dal pensiero di come siano di fatto cambiati i modi del fare musica nello scenario digitale (che ormai, a tutti gli effetti, è più reale del “reale”). Se, nel recentissimo passato, dal momento della composizione a quello in cui il disco arrivava nei negozi trascorreva un tempo spesso assai lungo, ora invece – grazie alla diffusione della musica on line – c’è la possibilità di dare immediatezza al lavoro del musicista e rendere quasi contemporanee tutte le fasi della filiera del disco. Questo comporta effetti davvero imprevedibili, riplasma molte classiche distinzioni, quelle tra chi fa la musica e chi la ascolta, tra la composizione e la diffusione, tra il lavoro in studio e le performance live eccetera. Inoltre sono saltate alcune funzioni che fino a poco tempo fa erano ritenute indispensabili: saltano gli editori, ovvero le “etichette”, saltano i tradizionali canali distributivi. E le “divise” professionali si ibridano: il musicista si fa produttore, il promoter diventa spesso anche agente e gli stessi distributori acquisiscono gli spazi per le campagne pubblicitarie. Fare musica in questo scenario rivoluzionato significava per me cercare percorsi che si insinuassero nella nuova corrente. Così è nato il progetto “Nacht”.
Sei arrivato all’approdo dopo un lungo percorso. Prima di “Nacht”, due uscite con altrettanti ep.
“Nacht” è nato con una linea tematica quasi sceneggiata come un sequel, con le track sfornate dallo studio e immediatamente pubblicate a puntate in due ep (“Orfeo” e “Lola”, Ndr) su tutti i canali on line da Believe, un contatto immediato e continuo coi fan (e con i critici) e una convergenza nel full length di tutte le variazioni e le correzioni suggerite durante il percorso interattivo.
Il risultato assomiglia alle tue aspettative iniziali?
Il risultato supera le aspettative. È stato un progetto felice che ancora non si è spento e che continuerà a essere riproposto su vari canali – anche quelli “tradizionali”, a ondate successive.
Come sei riuscito a mantenere unitaria la “temperatura” in un progetto così lungo con uscite sul mercato multiple? La coerenza della produzione, la continuità.
C’è stato un intenso lavoro preparatorio per costruire una linea “tematica” molto rigorosa: una specie di colonna vertebrale che ha retto tutte le torsioni e le inevitabili variazioni dovute al felice ingresso dei numerosi musicisti in momenti diversi e coi loro originalissimi temperamenti, ai mutamenti di scenario, ai momenti di euforia, di impazienza, di depressione o di raccoglimento. Ma anche al fatto che creare musica attorno a un’immagine tragica come quella di Orfeo (con tutti i suoi retaggi mitologici) era ben diverso dal puntare il riflettore su una figura futurante ed enigmatica come Lola che sembra invece uscita da un interno berlinese alla Wim Wenders. Così come diverso è stato, ad esempio, musicare un sonetto dantesco (“Guido i’ vorrei che tu e Lapo e io”, ndr) senza cadere nel facile didascalismo e mantenendo lo stesso tenore stilistico dell’intero album, trascinando anche il povero Dante nel pandemonio rock di “Nacht”.
Hai avuto dei “fari” creativi, estetici, letterari nella tua avventura? Pensavi all’esperienza di qualche predecessore?
Io sono passato dalla scrittura alla musica proprio perché sentivo la necessità di truccare la parola, incorporare in essa quell’intensità, quella profondità e quella vertiginosa ambiguità che la musica imprime. Non sono un cantautore, uno che mette il verso in musica. E non mi sono mai sognato di intendere la musica come una specie di didascalia della parola. Non le so fare queste cose, anche se so benissimo che c’è stata e che oggi resiste magnificamente una nobilissima tradizione, quella della “canzone d’autore”. Per me, invece, è importante creare un modo tutto mio in cui la parola stessa (con tutto il suo strascico di significati, di pensieri, di visioni e di vita) nasce originariamente come musica. Questo processo di “distillazione clandestina” per me è inizialmente solitario e segreto. Ed è proprio per questo che poi sento l’urgenza di condividerlo, dapprima coi musicisti che di volta in volta mi accompagnano e infine coi miei ascoltatori e fan che sono un po’ tutti speciali, anche loro abbastanza riservati e fieri navigatori tra i bassifondi del rock.
Una domanda alla quale non rispondi mai: anche se non fai parte di alcuna “scena” in senso stretto, a quali altri musicisti/cantautori/gruppi ti sentiresti di essere accostato?
È ovvio che, essendo un vorace ascoltatore e un lettore impenitente, ho nella mia mente e nel mio carattere un’infinità di musicisti, di gruppi, di stili che hanno plasmato il mio gusto e che sono responsabili di come sono fatto. Ormai è impossibile per me riconoscere gli ingredienti di questo impasto. Ma credo che sia così per tutti quelli che sono alle prese con un mestiere artistico e creativo. E poi c’è un’altra cosa. Ormai è da anni che sono abituato a vivere in una perenne colonna sonora. Grazie alla portatilità della musica, alle nostre protesi in mp3, è come se fossimo perennemente immersi in un liquido amniotico musicale. E sta venendo meno il concetto stesso di “autore”, finalmente. Prima o poi ci libereremo di questa maledizione dell’identità. E allora non avrà più senso attribuire qualcosa a qualcuno perché questo qualcosa sarà finalmente di tutti. Almeno così dovrebbe essere (oggi finalmente è possibile), almeno per gli oggetti dell’arte e della conoscenza, visto che in tanti millenni gli uomini non sono mai riusciti a condividere allo stesso modo gli altri beni della terra.
Ecco, vedi, non hai risposto….
Dal momento che mi dai questa libertà, ti dirò che mi piacerebbe molto fare un duetto con Billy Idol!
Prima parlavi della necessità di “truccare la parola”. Ritieni che la “parola cantata” sia meno usurata, meno banalizzabile di quella scritta o parlata?
L’usura, purtroppo, non risparmia niente e nessuno e tutte le arti corrono il rischio dell’insignificanza. Non solo quelle che hanno a che fare con la scrittura ma anche le arti visive e la musica stessa. Il passaggio alla “parola cantata”, invece, riguarda me ed è una mia personale impazienza, un lusso che mi voglio concedere. Ma, oltre a questo, sono sempre più convinto che nel nostro tempo la parola ha più che mai bisogno della phoné, di quel soffio dell’anima (o di un cuore pensante) che è sempre presente nella poesia, fin dai tempi di Omero. Metterci l’anima nella parola, metterci la musica nei pensieri. È questo battito ed è questo respiro che nelle conversazioni, più che nelle scorribande a volte anche oziose della letteratura, danno l’umana risonanza alle nostre parole e aggiungono bellezza alle nostre vite.
Che ti inventerai ora?
Devo portare avanti il mio progetto “Mythologies” che è cominciato qualche anno fa con “Hannibal” e adesso invoca tutte le attenzioni. Ora che sono arrivato al termine della notte, stropiccio gli occhi, mi do una ripulita, faccio risuolare le scarpe e precipito lungo quest’altro sentiero.
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