Intervista a Rodolfo Montuoro di Claudia Galal, “Insound”
Il musicista, autore e cantante ha appena pubblicato la sua ultima fatica discografica, “Nacht” (Incipit Recordings/Egea), che chiude un lungo percorso musical-poetico dedicato appunto alla notte e cominciato da oltre un anno. Infatti l’album raccoglie le canzoni rivisitate dei due precedenti ep, “Orfeo” e “Lola” (usciti solo in digitale) e cinque brani inediti che conferiscono all’opera la sua forma definitiva. È stato lo stesso Montuoro a raccontarci la storia di questo disco, rendendoci partecipi della sua personale visione della scrittura musicale.

Con “Nacht” si chiude il cerchio, si porta a compimento un progetto impegnativo che ti ha tenuto in studio molto tempo. Ma l’avevi pensato così fin dall’inizio o si è evoluto in corso d’opera? Quando e come hai concepito il tutto?
Il progetto è stato concepito due anni fa. L’idea era quella di comporre alla rinfusa e poi mettere in ordine “frammenti di un discorso” su uno dei luoghi più frequentati dall’immaginario musicale e letterario. Il tema della notte percorre tutte le epoche e ha sempre condizionato il nostro comune sentire: il chiaro di luna, i notturni, i canti o gli inni alla notte... Ma, senza scomodare Beethoven o Chopin, basti pensare alla tradizione dark in tutte le sue innumerevoli sfumature. Insomma, mi piaceva l’idea di mettere insieme un piccolo dizionario, un breviario poetico in forma di rock dedicato a questo immenso generatore di ispirazioni. Sono rimasto fedele alla mia prima intenzione “dis-enciclopedica” lungo tutto il percorso. Poi, mentre il progetto andava avanti, com’è inevitabile quando si entra nell’orbita centrifuga della musica o della poesia, ci sono state diverse e impreviste virate che hanno portato ad approdi sorprendenti.
I tuoi album hanno sempre un aspetto fortemente narrativo, non solo nei testi come accade di solito, ma anche nella costruzione stessa delle musiche e nella creazione del percorso d’ascolto. Qual è l’importanza di questa funzione narrativa?
La narrazione per me è un’istigazione potentissima. Una specie di istinto a volte perfino criminale. È per questo, ad esempio, che continuo ad ascoltare e a riascoltare Wagner. Per una narrazione perfetta credo che la parola non possa bastare. Ha dei limiti insormontabili. La parola, anche quella più elastica, è sempre legata a un significato. C’è qualcosa di greve nella parola. È troppo presa dal suo contenuto. La musica invece è un veicolo infallibile di narrazione, come un vascello con mille vele che spingono continuamente in tutte le direzioni. E infatti, nei miei testi, non racconto mai niente nei testi: sono visioni, scorci di dialogo, illuminazioni, invocazioni. Sono sempre schegge di significato, coloriture, segnali intermittenti per alludere o distogliere. I testi, insomma, costruiscono la cornice e il canovaccio. Ma è la musica che “racconta”, che crea paesaggi, personaggi, shock sentimentali e trucchi retorici. E anche gli strumenti si prestano sempre a questo scopo. Sono gli strumenti musicali e non le parole a incidere il racconto e le sue trame. La chitarra affabulatoria di Giuseppe Scarpato e le percussioni che dipingono paesaggi e ambienti di Gennaro Scarpato sono congegni narrativi. Così come il doudouk colmo di nostalgia di Silvia Fontani, la cornamusa inquietante e misteriosa di Massimo Giuntini, il theremin erratico di Vincenzo Vasi, il violoncello onirico di Naomi Berrill o il violino cuor-di-leone di Francesco Fry Moneti…

Comments