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I tormentati viaggi di Orfeo

Intervista a Rodolfo Montuoro di Francesco Zaglia, “Mescalina”


Rodolfo Montuoro è un artista anomalo nel panorama italiano: per l’utilizzo della voce, per la scrittura delle musiche, per la scelta dei musicisti, ma soprattutto per l’approfondimento nelle tematiche. Le figure mitologiche si alternano, in questo come nei precedenti dischi, a spaccati di contemporaneità che le attualizzano. Abbiamo cercato ancora una volta di seguire i passi del percorso artistico che lo ha portato a questo nuovo lavoro.


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Cominciamo entrando subito nel vivo. Proprio come ti avevo chiesto chi era Ulisse – quando presentasti il tuo album “a_vision” nel 2006 – e chi era Hannibal, quando parlammo del tuo ultimo lavoro discografico (“Hannibal. Mythologies I”), ora devo chiederti da subito: chi è Orfeo?

Orfeo, nel mito, rappresenta il potere del canto e della parola che si incarna nella poesia, nella musica e anche nel discorso persuasivo. Per la sua destrezza in queste arti, egli commuove, seduce, convince e incanta tutte le creature. Non solo gli esseri umani, ma anche le vegetazioni, i venti, le pietre, i vulcani, le costellazioni… Quando Orfeo canta o racconta, i boschi cominciano a muoversi, gli uccelli scivolano sui rami degli alberi e si dimenticano di volare, il corso dei torrenti si ferma, gli animali escono dai loro nascondigli per andare ad ascoltarlo… Orfeo è amato da tutti e da ogni cosa. Ma, a un certo punto, talenti e poteri non gli servono più a niente. Euridice, la sua promessa sposa, muore il giorno prima delle nozze mentre cerca di sfuggire a un altro suo spasimante - il pastore Aristeo - che la vorrebbe per sé. Orfeo non si rassegna e scende nell’Ade. Vuole farla rivivere. Vuole riportarla alla luce del sole e riesce a convincere col suo canto le divinità infernali. Ma c’è una condizione inflessibile: lungo il sentiero tra la morte e la vita, lui non dovrà mai voltarsi a guardarla. Orfeo non resiste. Preso dalla paura di lasciarsela ancora sfuggire e da un desiderio invincibile di baciarla, si volge verso di lei e così la perde per sempre. Questo lutto segna una svolta irreversibile nella sua esistenza. D’ora in poi la sua sventura non avrà mai fine. Si isola da tutti, ossessionato dalla memoria di Euridice. Così chi lo ha amato comincia a odiarlo. E sarà sempre peggio per lui. Alla fine, diventa preda delle sacerdotesse di Dioniso che lo inseguono e lo fanno a pezzi, imbestialite dalla sua ossessione e dalla sua indifferenza. Le parti del suo corpo rotolano alla rinfusa sulle acque del fiume Ebro. Ma la testa mozza di Orfeo, mentre galleggia tra i flutti, continua a intonare una canzone disperata e bellissima. Orfeo è uno che ha tutto e perde tutto. Forse perché non sa aspettare e resistere ai suoi impulsi. Forse perché resta prigioniero della mancanza e del ricordo. Forse perché non ce la fa a inventarsi un’altra vita. O perché ha osato ingannare la morte e ha rovesciato gli ordini naturali, e non ha mai voluto adattarsi. Oppure perché è un vigliacco che non ha saputo morire per amore, come disse di lui Platone. O per tutte queste cose insieme. Con i tre pezzi di questo minialbum fisso tre momenti, tre tessere di questa storia così labirintica, colti nell’attimo esatto in cui interferiscono con la mia immaginazione.

Questi brani entrano a far parte delle tue “Mythologies”. Che differenza c’è fra i miti che hai voluto descrivere in questo e negli altri tuoi album precedenti?

In “Hannibal” c’erano delle figure mitologiche terribili e vincenti. C’era Hannibal Lecter, innanzitutto, con le sue maschere seducenti e le sue istigazioni alla metamorfosi. C’erano Eros e Psiche, colti in un inseguimento reciproco, in una specie di movie a lieto fine. Si tratta, in tutti e tre i casi, di una mitografia vitale e vittoriosa. Hannibal, col suo sembiante di serial killer, dispensa nuove vite, identità, chances. Psiche, unica tra gli esseri umani, raggiunge l’immortalità (ovvero l’Amore eterno) e realizza il suo desiderio. Eros conquista quell’Anima che gli era sempre stata interdetta nell’Olimpo. Tutto si svolge alla luce di un pericoloso compimento in cui ognuno, alla fine, raggiunge il suo scopo, seppure tra orrori, mutamenti, deformazioni, avversità e imprese impossibili. Sono vicende che si snodano orribilmente e poi finiscono in bellezza. Orfeo, al contrario, rappresenta la caduta, l’abbandono, il limite, il lutto, la colpa, la mancanza, l’esperienza dell’inferno. Tutto si svolge in un mondo notturno che è anche luogo d’origine della musica e del canto. Nel mondo disperato di Orfeo, è come se un albero bellissimo e ricco di ramificazioni sontuose si rovesciasse, mostrando al cielo le sue radici sanguinanti.

La figura di Orfeo è molto complessa. Come mai hai deciso di misurarti con un personaggio del genere?

Credo che, per chi ha a che fare seriamente col pandemonio della propria immaginazione, prima o poi sia inevitabile misurasi con Orfeo. Questo spiega anche perché, nel corso dei secoli, questa figura impressionante abbia fulminato una corte infinita di poeti, musicisti, filosofi, narratori, scultori, pittori, cantanti confidenziali e cabarettisti… Di ogni genere e stile. In tutte le epoche. In ogni presente. Così che Orfeo è sempre vivo: la sua testa mozza e le sue incantevoli lamentazioni continuano a rotolare lungo i secoli. Sia nelle sfere olimpiche dell’alta cultura che nei bassifondi del varietà. Virgilio, Rilke, Valéry, Martin Buber, Poliziano, Anouilh, Camus, Cocteau, Boezio, Monteverdi, Liszt, Offenbach, Stravinskij, Gluck, Bacone, Shakespeare, Elizabeth Sewell, Edith Sitwell, Carmen Consoli, Tennessee Williams, Marcuse, Nick Cave, Oskar Kokoschka, Blanchot, Platone, David Sylvian.... Mi piace menzionare così alla rinfusa questi cultori di Orfeo, a dispetto delle gerarchie e delle distanze tra le rispettive arti e le rispettive epoche. Questo è il segno, probabilmente, che Orfeo incarna nelle sue innumerevoli e difformi citazioni un paradigma potentissimo. Come Prometeo o come Ulisse. È il modello di un’umanità scheggiata che non si rassegna mai al silenzio e che alla fine riesce comunque a generare musica, poesia e grazia anche tra l’orrore e il lutto, le mutilazioni, le mediocrità, i conflitti, i fallimenti. Tu puoi anche togliermi tutto e farmi a pezzi, ma non puoi fare niente contro il mio potere di produrre e riprodurre la bellezza. Così più o meno ci dice Orfeo. È, insomma, un invito alla “resistenza” nelle nostre vite. Certo, senza mai dimenticare - mentre ti parlo - che qui, nel mio caso, “sono solo canzonette”.


Tutte queste figure che abitano il tuo mondo musicale (Ulisse in “a_vision”, Eros e Psiche in “Hannibal” e, infine Orfeo), hanno un legame fra loro?

Sì, sono tutte figure irriducibili che non si rassegnano né al destino, né all’ignoto, né al potere, né all’inettitudine e neppure alla morte. Ed è avvincente, almeno per me, farli rivivere in uno scenario rock, elettrico e saturo di perturbazioni. E poi, diciamolo pure, si tratta di un “cast” veramente invidiabile. Una cosa è se ti parla il neosituazionista del Bar Mario di Correggio o il looser casereccio del Roxy Bar, con tutta la simpatia e l’affetto che puoi nutrire per loro. Un’altra cosa è se ti immagini di fare conversazione con Ulisse, con Hannibal Lecter o con Orfeo. Certo, può sembrare una cosa da pazzi. Però devo confessarti che la loro compagnia è più imprevedibile e ti suggerisce sempre qualcosa cui non avevi ancora pensato.


Ci sono dei miti che hanno un po’ un sapore stagionale, non so se perché effettivamente storicizzati. Prendiamo Sisifo, il suo mito sembra che abbia atteso silenzioso l’arrivo dell’esistenzialismo novecentesco per poi rinascondersi. Le figure mitologiche che scegli rappresentano dei lati della nostra stretta contemporaneità o dell’uomo in generale?

C’è già il presente che ci costringe a “storicizzare” continuamente noi stessi. A fare i patti con il reale. Non c’è alcun bisogno di storicizzare anche il mito. I miti, quelli vecchi e quelli nuovi, quello del dottor Faust o di Narciso, di Marylin, di Jim Morrison o di Heath Ledger, hanno proprio la capacità di incarnare, nella loro assolutezza, dei caratteri e delle condizioni comuni al nostro destino e alla nostra esistenza. Sono figure esemplari, anche quando incarnano il jocker, la donna persa o la gioventù bruciata, in cui ognuno può riconoscere o reinventare se stesso, a prescindere dall’Epoca, e senza ricorrere alle comodità o agli impegni delle ideologie o delle religioni. La vicinanza del mito dà una specie di solennità alle nostre azioni e al nostro sentire, offre una prospettiva al di là del tempo e del momento. Ed è anche un modo per conoscersi meglio e prendere sul serio le proprie scelte. Per riflettersi in qualcuno o in qualcosa. Ma è importante saperle riconoscere queste figure, saperle interrogare e riuscire a intrattenere una “conversazione” feconda con loro. Ed è anche importante scegliere il “proprio” mito, quello che si adatta meglio al nostro carattere. Del resto, la nostra biografia, ogni nostra vita, alla fin fine, è fatta esattamente con gli stessi ingredienti del mito.


Una curiosità: come mai non hai mai scelto fino ad ora di lavorare su figure mitologiche femminili?

In effetti, in tutte le mie canzoni, sin dall’inizio, c’è sempre un’invocazione ininterrotta a Psiche, all’Anima. È onnipresente. C’è anche una specie di pudore, di riserbo. Però devo dirti che, secondo me, le arti più adatte a rappresentare la grazia, il mistero e la “presenza” del mito al femminile sono la pittura e la scultura o anche la fotografia più che la musica. Sono le arti “plastiche” di Dante Gabriel Rossetti, di Canova o di Ewa-Mari Johansson.


Passiamo a parlare dell’uscita del disco. Come mai hai scelto di far uscire solo i brani in digitale per ora?

La dimensione virtuale o digitale è perfetta per la musica. Ci sono voluti millenni per approdare a questo risultato e, infine, ci siamo quasi riusciti. La musica deve vivere in uno spazio immateriale proprio per la sua stessa natura, slegata da ogni fisicità. Abbiamo sopportato, nella storia dell’umanità, secoli in cui la musica è stata appannaggio di pochi privilegiati. Assaporata solamente nei momenti della festa, nelle corti aristocratiche, negli auditorium, nei teatri borghesi, nelle sale da camera e infine - sempre a pagamento e finalmente riprodotta per un consumo individuale - nei megastores, a prezzi comunque sempre fuori dalla portata di tutti. I meccanismi commerciali imposti dalle major e dalle grandi catene distributive hanno provocato negli ultimi decenni un appiattimento della qualità e una desolante uniformazione, creando dei filtri e dei cliché che hanno abbassato il livello della musica di consumo. Ora finalmente la diffusione libera è tecnicamente a portata di mano, anche per effetto dei social. E credo che per ogni artista il problema di rendere universalmente disponibile la sua opera, sia ormai anche una questione di natura etica. Molti autori e gruppi recentemente hanno manifestato questa istanza, a partire dai Radiohead, tanto per citare l’esempio più clamoroso. Certo, i Radiohead hanno un brand potentissimo e possono permettersi di scavalcare i soliti meccanismi commerciali. Però credo il principio possa valere per tutti. Ci vorranno ancora diversi anni. Ma la strada è questa, senza alcun dubbio. Quindi il mio nuovo progetto esce subito online, alla portata di pochi spiccioli. Solo alla fine diventerà un album “fisico”. Ma non si tratta solo di distribuzione e diffusione. Il fatto di non essere più legati ai tempi lunghi della produzione di un disco, permette di essere online subito dopo aver chiuso il lavoro in studio e di ottenere in tempi assai brevi un feedback di ascolto.

È una scelta che in qualche modo è in linea con Orfeo: il disco viene smembrato e le sue parti continuano a cantare per poi trovare una nuova unità sotto forma differente. Condividi il paragone oppure sono io che lavoro troppo con la fantasia?

Sì, è vero. Questo di “Orfeo” (l’ep che contiene i brani “Orfeo”, “La svolta” e “Giorni messicani”) è il primo brandello di un progetto che si intitola “Nacht”: undici pezzi dedicati alle mitologie della notte che escono online, “a puntate” di tre o quattro brani, ogni quattro mesi, a cura di Believe, la label francese attualmente leader in Europa per la distribuzione digitale. Alla fine, tutti i brani online confluiranno, insieme a quattro inediti, nel cd, distribuito questa volta, “fisicamente” in tutti i negozi, da Egea. Così, da qui a un anno, sarò continuamente impegnato insieme ai miei musicisti nella produzione e nella promozione del progetto “Nacht”, un work in progress che si sviluppa e trova ispirazione proprio mentre si va avanti nel lavoro. Questa modalità “a puntate” mi permette anche di adattare ogni volta il cast, di concentrarmi meglio su ogni singolo pezzo, di cesellarlo artigianalmente e di proporlo in maniera più percepibile all’ascolto. In un album di dieci o dodici track, di solito riusciamo ad assaporare tre o quattro canzoni al massimo. Le nostre modalità di fruizione, infatti, sono diventate molto più voraci, inquiete e frettolose, per cui è assai difficile dedicare tempo a un intero album. Diluire e concentrare l’ascolto dovrebbe consentire, invece, una ricezione più intensa e finalizzata.

Musicalmente invece, per quanto ho sentito, questi tre brani da un lato mantengono una certa continuità nel suono rock con Hannibal, ma allo stesso tempo sembrano covare parecchie differenze. Posto che la mia percezione sia vera, questa duplicità è stata una scelta?

Questa è una domanda che torna a ogni mio nuovo lavoro. E a me fa piacere, perché mi dà una specie di attestato di esistenza. Vuol dire che non mi sono fermato, che non infliggo ripetizioni ai miei rari ascoltatori. Quando uscì “a_vision” mi si rimproverava amabilmente di non somigliare a nessuno; “Hannibal” sembrava irriconoscibile rispetto a quello che avevo fatto. Ora “Orfeo” produce la stessa impressione di avere a che fare con qualcosa di diverso. Il grumo di continuità, appena sufficiente per rendere riconoscibile uno stile che comunque resta sempre in filigrana, serve a innestare un altro volto, o una nuova maschera. Per me non può essere diversamente e credo che sarà sempre così. Questo dipende immanzitutto dal fatto che sono un ascoltatore onnivoro e vorace. Sono abituato a pensare musicalmente in tutti i generi. Ma molto dipende anche dai contenuti. Ogni grappolo nuovo di parole, ogni nuova tessitura di storie e di concetti chiede un diverso concertato proprio perché per me la musica deve aderire intimamente ai contenuti. Cambiano i contenuti e, inevitabilmente, cambia anche lo scenario sonoro, il mood, i ritmi, gli strumenti. A volte anche il colore stesso della voce. Ma, per fortuna, questo avviene - almeno per me - naturalmente e senza forzature.


In ogni album hai sempre fatto attenzione a mettere uno strumento anomalo, fuori dal panorama comune delle scelte strumentali di un album rock. Questa volta compare un magnifico theremin suonato da Vincenzo Vasi, come mai proprio lui?

Il theremin è uno degli strumenti più difficili. Sono pochi gli esecutori di livello. Ed è per questo che è quasi in estinzione. Inoltre, c’è sempre stato il vezzo di utilizzarlo come un generatore stravagante di effetti (tremolo, vibrato, glissato…) piuttosto che con una precisa partitura. Con degli esiti sgradevolmente kitsch, nei film dell’orrore o di fantascienza. Vincenzo Vasi è un virtuoso, riconosciuto a livello internazionale. Uno dei pochi ad averne una padronanza assoluta, a suonarlo con la stessa precisione di un violino o di un basso elettrico, a trovare sempre la nota esatta, senza alterazioni e senza “arrampicarsi” sulle scale tonali. La sua presenza è stata molto emozionante e si è innestata perfettamente con le coloriture ormai inconfondibili ed elegantissime che Giuseppe e Gennaro Scarpato hanno saputo costruire anche in questa occasione. C’è stata un’alchimia appassionante in studio, grazie anche alla partecipazione di musicisti straordinari: Naomi Berrill (al violoncello), Ilaria Lanzoni (al violino), Alessandro Gandola (al sax), Francesco Gabbanini (al basso e allo stick), Emiliano Garofoli (al missaggio). Perfino l’artwork di Francesco Marangon (che mi ha seguito in questi anni con delle splendide copertine e delle idee grafiche davvero visionarie) si è intrecciata perfettamente nella nostra “partitura”. Anche questa volta, il sodalizio con i fratelli Scarpato ha raggiunto la perfezione ed è stato veramente emozionante lavorare con artisti così sensibili e dotati. Hanno diviso con me l’impresa impossibile di avvicinarsi all’idea del canto di Orfeo, e offrirgli una specie di risarcimento. Per me, è come aver fatto un viaggio sulla luna insieme a loro.

Sembrava che nella tua ricerca musicale avessi intrapreso un percorso a ritroso nelle origini vibratorie degli strumenti, passando dalle uillean pipe al didjeridoo. Io mi aspettavo uno strumento a percussione, come mai invece il theremin?

Orfeo non è come il dio Pan o come Dioniso. Non può esserci soltanto il ritmo ditirambico, la pulsazione cardiaca, la danza sfrenata. Orfeo è il cantore della melodia. Lui importa dei “motivi”, delle ragioni, degli scopi e anche dei “misteri” nella musica. E, inevitabilmente, anche delle ambiguità che non si accordano immediatamente all’andamento delle percussioni. Questo è un album che invoca la discesa agli inferi, entra ed esce continuamente dalla sfera del gotico, sempre rasente l’ombra, sempre su una soglia pericolosa che sta per sprofondare. Era per me inevitabile l’uso del theremin. Perché il theremin, pur essendo fatto solo di interferenze elettromagnetiche, è capace di innalzarsi in qualunque momento dal ritmo. Inoltre, simula perfettamente il colore della voce umana e l’intensità degli archi, portandoli a un livello di altissima suggestione che né la voce né lo strumento in sé potrebbero mai raggiungere.

Forse perché il mito di Orfeo, che è legato tanto all’acqua e alle profondità quanto alla dimensione celeste e astrale, non poteva non avere il suono del theremin che è in grado di dare voce a queste due dimensioni e di farlo in modo continuo, glissante, senza interruzioni. Sei d’accordo?

Infatti, è proprio come dici. La vibrazione, eseguita a regola d’arte (così è stato), si adatta perfettamente al grado vertiginoso e sulfureo di inquietudine che corre in tutti i brani. Inoltre, trasmette subito all’ascolto l’impressione di un passaggio continuo tra piani e livelli sonori diversi. Le percussioni incalzanti, le melodie suggestive degli archi e del sax e gli sfrontati accenti rock delle chitarre trovano nel theremin un veicolo che li amplifica, li assorbe, li esalta e crea profondità attorno a essi, con naturalezza. Anche la mia voce si è dovuta adattare e, in un brano (la title-track), canta addirittura in perfetto unisono col theremin. Tutto ciò è stato possibile proprio grazie alla destrezza dei musicisti che hanno saputo entrare subito in questo pandemonio orfico. Così che la “pasta” del disco risulta omogenea, armonica e possente, senza strappi, senza divagazioni. Come una scia sottile e tenace che tiene l’imbastitura tra mondi irriducibili. Quei mondi estranei che Orfeo si era illuso di comporre, per tenere insieme a sé la sua Euridice.

Intervista a Rodolfo Montuoro di Francesco Zaglia, “Mescalina”, 2009

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