di Rino Garro
A bordo del piroscafo A_vision (Auditorium/Ird, 2005) Rodolfo Montuoro aveva solcato il mare della malinconia nera e dei tormenti interiori e diretto la prua verso approdi di speranze e nuove illusioni, sebbene molto al di là dell’ultimo orizzonte. Un esordio che aveva colpito per la calibrata miscela di musica e parole, nell’intreccio incalzante di melodie celtico-jazzistiche-mediterranee, curato dalla produzione artistica di Massimo Giuntini, di forte impatto emotivo. La voce – ancora di più – era sembrata davvero convincente: non dotato forse delle accensioni e delle estensioni classiche degli interpreti più virtuosi, Rodolfo Montuoro aveva naturalizzato la qualità del canto a un quasi parlato, profondo, eppure sognante, fino a renderlo inconfondibile.
Ma oltre l’oceano in tumulto, attraverso i perigli della navigazione a vista, Rodolfo Montuoro non era approdato all’abbraccio di un porto quiete, quanto piuttosto a quello di un porto sepolto – Hannibal Mythologies (Ai Music, 2008): qui la ricerca di introspezione, poetica e vocale, appare ancora più dolorosa in quanto a contrasto, per lo più, di sonorità pulsanti e stridenti, affidate alle cure di Gennaro e Giuseppe Scarpato di bennatiana memoria. Un disco lirico, di pieno fulgore percussivo e con qualche impeto di splenica solarità; un concept-album, molto apprezzato negli ambienti della musica indipendente, nel quale la figura di Hannibal the Cannibal assurge, nell’immaginario dell’artista, all’altezza di mito moderno, una sorta di Don Giovanni che invece di sedurre e abbandonare le sue “vittime” porta all’eccesso la sua devozione d’amore al punto di espiantare i loro cuori gocciolanti per poi divorarli, metabolizzarli.
Rodolfo Montuoro aveva poi continuato, per qualche tempo, a pianificare le sue rotte nel mare aperto delle tempeste emotive e dei constrastanti moti dell’anima col desiderio – probabilmente mai cercato fino in fondo – di completa serenità. Nacht (Believe Digital/Incipit Recordings/ Egea, 2010) è l’ormeggio successivo, e comunque i movimenti di beccheggio e rollio sono così impetuosi da costringere a voler desiderare altre dimensioni. La cupa atmosfera della notte si apre a spiragli di luce lunare, a visioni trascendenti, recuperate dallo splendido A_vision, ma qui i tempi compositivi sono dettati non più dalle melodie celtico-mediterranee ma dai ritmi di un rock contaminato, dai riff dolenti e bulinanti della chitarra elettrica. Silly moon richiama ad atmosfere romantiche e leopardiane, mentre in Convergenze parallele il vagheggiamento lunare sembra addirittura volere aspirare a una trasfusione cosmica (“La terra e il cielo si guardano/la terra e il cielo si specchiano/ La terra e il cielo si toccano e si meravigliano”). L’alta cifra dei versi è suggellata dalla dedica finale al poeta dei poeti, Per incantamento, e appare inevitabile: il mondo, così come l’anima dell’artista, necessita di cantare l’amore – magari impalpabile e trasfigurato – e di cantare l’epica dell’amore per la poesia. Però di fronte ai drammi della storia, di fronte ai continui cataclismi antropologici della società, l’individuo risulta impotente nella sua singolarità; e fragile la sua illusione di superamento, o di una qualche “vita posteriore” intesa come “destino, distanza, bisogno, paura”. Mondi e popoli (“Non vedo più i binari del cielo/non vedo più la Storia avanzare/troppe cose da fare /troppe vele sul mare”) anticipa le tematiche della ricerca successiva, che consegue nel suo ultimo, atteso lavoro: Voices (Believe Digital/AiMusic, 2018): declino dell’Occidente e popoli in marcia.
La prima traccia, Fall city, dice dello smarrimento degli umani e parla attraverso la voce profetica e immanente di Roberto Pedicini che si eleva maestosa da inquietanti sonorità eletroniche e tribali. È la dichiarazione senza preamboli di una umanità e di una pietas perdute, di un Occidente in crisi di valori dove i sentimenti sono stati cancellati e i corpi avanzano senza volto, solo gli occhi restano a misurare l’orrore che li circonda (“Così vicino a te/ che non mi vedi più”). E se pure una qualche velata speranza si fa strada in forma di elegiaca consolazione (quella “vita posteriore” di cui si è scritto), ha il colore del lutto il sentimento che si addice ad Africa (La rosa nera). Poiché quello in cui viviamo è un mondo grande/piccolo incapace di risolvere le sue contraddizioni, che calcola e misura/accoglie secondo logiche economiche. Qui il canto di Rodolfo Montuoro è appena un sussurro, fondo, muschioso, poco più del parlato di Roberto Pedicini; ma è in verità l’urlo, potente e disperato, che proviene dalle caverne, provato a lanciare alle generazioni prossime, considerata la sordità di quelle presenti. Così – emblematicamente, simbolicamente – i suoni e i ritmi del passato non possono che saldarsi con quelli del futuro: un magma paludoso da sabbie mobili, un flusso sperimentale di chitarre e campionamenti che conducono, quasi incalcolabili, al vero strumento di cui l’uomo è dotato: la voce, la phoné, che è voce spirituale e di comunicazione. E in Occidente, implora la voce, le notti sono finite, e il mondo così com’è/non serve a salvarti/non serve a sfamarti. La voce implora. Ripete e ripete, a se stessa più che altro, con la flebile speranza che i posteri possano ascoltare.
Quale sarà il prossimo porto di Rodolfo Montuoro? Di sicuro nel segno della qualità della ricerca, dell’originalità, della speciale fusione di suoni parole e canto, di coerenza, così come hanno dimostrato fin qui tutti i suoi lavori.
© Rino Garro
Firenze, 16 marzo 2019
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