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La mappa delle maree

Intervista di a Rodolfo Montuoro di Luigi Milani, “OndaRock”



In occasione della pubblicazione del nuovo album “Nacht”, abbiamo incontrato Rodolfo Montuoro, uno degli artisti italiani più interessanti della scena rock contemporanea. Di Rodolfo colpisce innanzitutto l’approccio trasversale, che lega suggestioni di differenti provenienze in un amalgama sfaccettato ma sempre coerente e coinvolgente. Tra influenze letterarie “alte” (un esempio per tutte, l’omaggio a Dante), suggestioni cinematografiche e richiami alla musica cosiddetta seria, l’universo musicale dell’autore di “Nacht” si offre all’ascoltatore ricco e spiazzante. Ma non si pensi allo stereotipo dell’artista “colto”, che vive nella classica torre d’avorio: al contrario, in questa intervista Rodolfo mostra di avere le idee ben chiare sull’attuale situazione discografica globale...

L’uscita dell’album “Nacht” segna l’approdo di un percorso che si è sviluppato attraverso due tappe precedenti, gli ep “Orfeo” e “Lola”. Ho notato che hai rielaborato i brani provenienti da questi due ep, in qualche caso discostandoti abbastanza dalle versioni originarie. Una precisa esigenza artistica o solo la necessità di uniformare l’intero disco, che – lo ricordo – comprende anche cinque brani inediti?

C’è senza dubbio l’esigenza tecnica di dare uniformità al full length. Ma questa esigenza è stata secondaria. In effetti, il progetto stesso prevedeva fin dalla sua origine – in quanto work in progress – un processo di rielaborazione e “rivoluzione permanente” delle track già pubblicate in “Orfeo” e “Lola”. I brani sono stati tutti ricantati e in ognuno c’è qualcosa di nuovo e di inedito. Altrimenti non avrebbe avuto senso farli prima uscire a puntate e poi ricomprenderli, così com’erano, nell’album. Il fatto che “Nacht” sia nato e sia cresciuto nella Rete ha permesso una continua mutazione, generata anche dai miei ascoltatori, dai fan più fedeli e dai numerosi feedback dei critici musicali più affini al mio mondo che, in questi due anni, nelle loro belle recensioni, mi hanno regalato degli stimoli veramente preziosi. In alcuni casi, quando siamo nuovamente intervenuti sui pezzi, si è trattato di piccoli ritocchi, leggere limature oppure di cambiamenti nel mix che hanno fatto venire in luce altre filigrane del concertato; in altri casi ho agito più profondamente sulla struttura del brano. Alla fine, pur mantenendo la sua continuità, il progetto so è arricchito di una luce nuova e inedita. Proprio come volevo.

Parliamo degli inediti: è stato difficile riprendere le fila di un progetto così articolato e ambizioso come “Nacht”?

Gli inediti mi galleggiavano vagamente in testa durante tutto il tempo, ma non riuscivo a dar loro una forma. Ero in attesa di qualcosa. C’è stato addirittura un momento in cui stavo per mollare tutto. Le maschere tragiche di Orfeo e Lola avevano preso il sopravvento e invaso tutta la scena della mia immaginazione. La rassegnata speranza di Lola e l’indomita disperazione di Orfeo avevano creato un cerchio perfetto, autosufficiente, e anche un cortocircuito, refrattario a ogni continuazione. È come se questi due personaggi così potenti volessero vendicarsi per essere stati evocati insieme. Cominciavo ad avvertire il timore di avere finito. E per qualche settimana non ho più sentito l’urgenza di andare avanti. Poi, alla fine, quei frammenti fluttuanti si sono ricomposti, si sono messi a suonare in testa sorprendendo anche me. Mi sono reso conto che “Silly moon”, “Convergenze parallele” e “Nacht” rappresentavano un riflesso esemplare di tutti i motivi già sparsi: gli stessi ingredienti si sono ricomposti in una nuova e inedita distillazione di melodie, di immagini e anche di trame narrative che covavano già dall’inizio e poi si sono materializzate. In verità è stato un azzardo. All’inizio, quando mi sono buttato in questa avventura, avevo solo una manciata di presentimenti. Ma volevo a tutti i costi che portassero alla mia “edificazione” della notte con tutti i suoi paesaggi, i personaggi, le città interiori, le ombre, le illuminazioni, le invasioni e gli allagamenti... Magari in sé tutto questo è poca cosa, ma per me è come aver conquistato finalmente una mappa delle maree. Ora mi sento fortunato per esserci riuscito. E al sicuro.


In “Nacht” colpiscono molto le sonorità, più percussive e rock che in precedenza: ho la sensazione che il baricentro della tua musica si stia spostando ben oltre le frontiere del dark e del progressive.

Per me c’è il rock prima di tutto. Ma c’è anche qualcos’altro che va in altre direzioni, non necessariamente “oltre”. Diciamo che il mio albero del rock si è molto ramificato, nel frattempo, e senza le solite, educate potature. Del resto, quella di civettare con codici e tradizioni apparentemente dissonanti è un po’ – dicono – la marca della mia musica: una specie di fotosintesi che metabolizza linguaggi spesso molto differenti. Devo confessare che questo per me, a volte, è anche un problema. Il problema della classificazione... Perché se non ti classificano spesso neppure ti accettano. Si ha sempre qualche imbarazzo a collocare i miei album nello scaffale giusto. Probabilmente non esiste più lo scaffale giusto (Ce ne stiamo tutti accorgendo da quando lo stesso motore di ricerca contiene, apparentemente nella stessa stringa, tutto lo scibile umano). “Hannibal”, ad esempio, pur essendo un album squisitamente rock (almeno nelle mie intenzioni), è stato collocato dagli account dei negozi in area jazz. “a_vision” in quella della celtica o del folk. Adesso sono curioso di vedere dove andrà a finire “Nacht”. “Orfeo” e “Lola”, che appartengono allo stesso progetto, quando sono usciti li ho visti nell’area del progressive, della new wave e anche tra la cosiddetta musica d’autore. Tutto sommato, tutto questo è anche il segno – per me molto promettente – che certi steccati, certe definizioni generalissime della musica contemporanea stanno diventando insignificanti. Ciò è sicuramente il presagio di una rinata vitalità e di una nuova e più coraggiosa “conversazione” tra i diversi generi e tra i musicisti di varia scuola.

Anche in questo disco utilizzi strumenti inconsueti, come il theremin e il doudouk: un approccio alla musica non comune, in questi tempi di produzioni addomesticate e spesso troppo simili tra loro...

Lo stesso discorso della conversazione tra i generi vale anche per gli strumenti musicali che – nelle mie intenzioni – dovrebbero dialogare senza sosta. Gli strumenti per me sono voci. E le voci devono essere differenti e numerose, evocare mondi lontanissimi, provocare vertigine, ricordi, nostalgie, sentimenti e illuminazioni... Questo è l’effetto del doudouk e del theremin, degli archi, delle chitarre e degli inserti elettronici che non si fanno mai scrupolo di entrare ad esempio nel dialogo tra un violino e un sax oppure, come accade spesso, di cantare all’unisono con me, mentre le percussioni creano attorno paesaggi e ambienti. La cosa che mi soddisfa di più è che questa moltitudine di voci crea una plot sonoro molto compatto, con un temperamento deciso e una trama sonora che è coerente e avvincente proprio per la sua diversità.

Sei autore sia dei testi che delle musiche: qual è il tuo metodo compositivo?

La musica per me ha la precedenza. Ma, di solito, l’intreccio delle melodie contiene già in sé la trama. Così cercare il testo è come scavare in miniera. So già che, oltre qualche strato, c’è già la parola calzante: si tratta solo di arrivare nel punto esatto del tunnel e alla giusta profondità. Il resto, è lavoro di cesello che, il più delle volte, può durare anche dei mesi. E, proprio per questo, cerco di agire contemporaneamente su diversi fronti melodici e narrativi. Alla fine, comincio a immaginare l’arsenale degli strumenti e delle atmosfere più adatte.

Prevedi di andare in tour prossimamente?

Oggi il live viene vissuto come una necessità, con una certa dose di disperazione, come se fosse l’ultima chance per la sopravvivenza della musica. Per me, invece, è più importante il lavoro di produzione dell’album. A me basta portare alla luce un progetto compositivo, fare in modo che sia suonato e realizzato al meglio. Questa è la prima cosa. Il resto non mi importa più di tanto. Non mi piace l’idea del live a tutti i costi. Il più delle volte diventa una riproduzione in economia de lavoro fatto in studio. Non mi piace la liturgia dell’esibizione. Perché una performance dal vivo abbia un senso, è importante che sia curata al massimo la funzione scenica, con la stessa premura del lavoro musicale realizzato nel tabernacolo dello studio. Se ci saranno queste condizioni, se cioè il concerto aggiungerà qualcosa di inedito e di creativo nel solco dell’immagine, dell’atmosfera, della recitazione, della rappresentazione, oltre alla mia presenza fisica e a quella dei musicisti, Nacht avrà il suo tour. Ma sarebbe un altro progetto, non un corollario promozionale.

La crisi della discografia è una realtà, ahinoi, innegabile: giorni fa, parlandone con un tuo illustre collega, Mario Lavezzi, ci siamo trovati concordi nell’attribuire la maggior parte delle responsabilità proprio all’industria discografica. Qual è il tuo punto di vista?

L’opinione di Mario è autorevolissima, avendo egli frequentato e praticato dall’interno, per tanti anni, tutti i luoghi dell’industria discografica. È vero e ha ragione. Per decenni i discografici si sono clonati a vicenda, abbandonando la ricerca. A questa loro ottusa disposizione si è aggiunta quella dei distributori che hanno tenuto nei negozi solo i prodotti di questo gigantesco copia-copia universale, escludendo tutto il resto. Alla fine, tutti dovevano identificarsi nel grande Clone, tutti dovevano somigliarsi. Chi non somigliava a nessuno dei modelli che andavano per la maggiore, veniva allontanato. E la regola si è imposta anche nei programmi radiofonici e televisivi. Col passare degli anni, tutto questo ha provocato un vertiginoso abbassamento dell’offerta, un imbarbarimento del gusto, un’analfabetizzazione del pubblico della musica. Non solo, ma i costi dell’ascolto sono diventati altissimi, comprare musica è diventato un lusso e progressivamente i giovani venivano emarginati anche dal mercato. La situazione era insostenibile. Negli anni più recenti, il processo di “democratizazione” scatenato dalla Rete ha investito la produzione e il consumo. Ed è stata un’ecatombe per un’industria viziata e smidollata come quella delle major e delle grandi catene distributive. Era necessaria una catastrofe dell’esistente per far apparire il nuovo. Così è stato grazie all’irruzione della musica online che ha liberato energia e creatività, ha fatto piazza pulita di mediazioni inutili nella filiera del disco, ha reso economicamente inutile il parassitismo di discografici e account commerciali e ha moltiplicato le occasioni del “fare musica” e dell’ascolto. Anche il consumo della musica sta tornando a essere occasione di esperienze culturali, com’era negli anni pionieristici delle radio libere. Evviva la crisi, dunque!

Intervista di a Rodolfo Montuoro di Luigi Milani, “OndaRock”, 2010.

Illustrazione di Daniela Giarratana per il booklet di “Nacht”. Courtesy of © Daniela Giarratana.

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