Intervista a Rodolfo Montuoro di Simone Broglia, “Mescalina”
La parola e il suono, la voce e la melodia, la poesia e la canzone.
Con Rodolfo Montuoro parliamo di tutte queste cose e osserviamo come possano perdere i loro confini e mescolare le loro identità muovendosi verso nuovi approdi di significato.
Partiamo con un complimento, ho trovato il tuo disco, “a_vision” estremamente bilanciato: musica e parole sono in perfetto equilibrio e si intrecciano con molta eleganza. Trovo sia una cosa rara, cosa ne pensi?
La parola, da sola, comunica fino a un certo punto. C’è un limite insopportabile nella parola. C’è un grumo di immaginazione, di magnetismo sensibile, di presignificato, di battito cardiaco: c’è, insomma, un organo invisibile, una specie di polmone pensante che non ha parole. Ma non può starsene nel sottoscala dell’inconscio o del presagio: deve venir fuori dalla musica e dal canto. Del resto, alle origini della nostra tradizione letteraria, ai tempi di Dante, la “canzone” non era concepita come una forma unicamente scritta. La parola era fatta per essere cantata, proprio per amplificarne il senso. Ed è proprio questo lo scopo della rima che batte il tempo, che dà il ritmo e fa cadere l’accento (e l’attenzione) su un preciso segmento del significato. Se non ci fosse questa intenzione “espressiva” nella rima, essa suonerebbe ridicola, come un’ottusa filastrocca. A volte ci vogliono dei mesi per far venir fuori una buona strofa in cui la melodia circola naturalmente insieme al suo significato. Ecco: una parola cantata, per me, dice mille cose in più del suo concetto letterale. È una parola “truccata”, ma è anche più attraente, più rotonda, dice tante cose insieme e cattura più facilmente l’attenzione, oppure ti commuove o ti sorprende senza un apparente perché. Velocizza il pensiero, anche quello di chi ascolta, e arriva il più lontano possibile.
Anche la scelta dei musicisti, tutti presi dall’area celtica o dal jazz, trovo si possa legare al discorso fatto precedentemente.
Certo, il paesaggio sonoro, nelle mie intenzioni, non può essere desertico o minimalista. In questo album avevo bisogno di sonorità rotonde e colori netti, quindi bisognava mobilitare un’ampia gamma di strumenti, suonati in presa diretta. Avevo bisogno di un’epica e di uno spazio narrativo, volevo sentire respirare i flauti e le cornamuse per riprodurre l’affanno e le tempeste dei sentimenti. È stata creata una stratificazione complessa dell’orchestrazione, per dare luogo alle invocazioni, alle fughe, alle pause e alle vertigini del testo. Ma, soprattutto, era importante disporre di musicisti con un’abilità alta dello strumento, per creare l’ambiente naturale della parola. Questa intersezione tra l’aria celtica e quella jazz era quella giusta, quella più adatta a creare anche nel disco l’impressione che la musica non è riprodotta, ma si sta facendo proprio nel momento in cui l’ascolti. La direzione artistica di Massimo Giuntini, che è uno dei più valenti musicisti dell’aria celtica, mi ha permesso di realizzare tutto questo insieme a Vieri Bugli dei Whisky Trail (violino), Massimo Fabianelli (fisarmonica), Carlo Gnocchini (pianoforte e tastiere), Giacomo Lumachi (tromba), Daniele Malvisi (sax), Michela Munari (violoncello), Andrea Nocentini (batteria a spazzola), Fabio Puglia (chitarra e synth). Per alcuni brani ho potuto disporre anche della collaborazione alle percussioni di Gennaro Scarpato che ha saputo dare una coloritura unica a certi passaggi. Mentre l’attore Andrea Biagiotti ha interpretato, in un pezzo che si intitola “International Sea”, un recitato veramente esemplare che dà un’idea molto suggestiva di come intendo la contaminazione tra parola e musica.
Le parole e la musica hanno lo stesso peso e spesso anche lo stesso intento, le ho trovate esprimere entrambe lontananza. Cosa ne pensi?
Sì, se vuoi dire qualcosa per trasmettere un’emozione o per offrire un brandello della tua vita che abbia un senso per chi ti ascolta, devi prendere le distanze, devi allontanarti di una lega, devi arrampicarti sul ciglio del canyon, dare un’eco alla voce e ululare alla luna. A volte, in questo mondo ipertelefonico e logorroico dove la gente parla e parla senza mai ascoltarsi, abbiamo bisogno del dramma della lontananza per essere compresi e colpire nel segno.
Del resto l’utilizzo dei fiati celtici di Giuntini nelle lunghe code delle canzoni richiama echi di lontananza, con la voglia sottesa di rendere epico il tutto.
È proprio così. L’espediente madrigalesco delle “code” ha la funzione di creare una distanza dal presente, una specie di mulinello centrifugo che ti spinge altrove e, nello stesso tempo, ti riconduce al centro del ritornello. Questo serve anche a muovere il corpo. C’è sempre un’intenzione danzante nelle chiuse dei pezzi, il che li rende anche molto orecchiabili e piacevoli all’ascolto e crea una certa confidenza con l’ascoltatore che si affeziona al motivo, lo segue ritmicamente tamburellando o lo fischietta perché alla fine gli è diventato familiare. L’album è pieno di questi motivi a mulinello che hanno anche la funzione di fare trance e di allestire una specie di trampolino che, attraverso la ripetizione, ti spiazza dal presente. In questa dimensione, la risonanza di certe parole potrebbe anche diventare “epica” – come dici tu – e creare, cioè, un nucleo di emozioni e di sentimenti condivisi, ma in un luogo altro che è quello imprevisto in cui ti porta la musica. Le ampie aperture dei whistles o delle cornamuse, i riff dei violini o del bouzouki sono spesso usati per creare questi effetti evocativi e dislocativi.
Nel disco non si sente solo la lontananza, ma anche molta malinconia, voglia di fuggire.
Sì, c’è la malinconia del fantasma o dell’anima in pena per qualcosa che ha perso e che non torna più. Se c’è una fuga, è quella dal senso della perdita, dalla ferita e dal lutto. Cerchi di scappare dal dolore. Dici qualsiasi cosa, ti aggrappi a ogni parola, suoni le corde più struggenti e ammalianti per fuggirtene dal limbo degli angeli caduti. E aspetti. Alla fine, in questo lavoro, nonostante tutto, c’è un forte elemento ottimistico e positivo che mobilita la speranza dell’attesa e della rinascita.
Le canzoni sono tutte in prima persona, ma vi è un dialogo, vi è il continuo rivolgersi a qualcuno in cerca di complicità, spesso però mancata, disattesa, delusa.
È un’invocazione più che un dialogo. Nasce quando ti accorgi di avere consumato tutte le parole. Cosa puoi dire quando arrivi a questo punto? L’album comincia da questa ultima soglia, cioè quando ti rendi conto che tutto il tuo armamentario di ragioni e di intenzioni non serve più a niente. E allora diventa sorprendente anche per te misurare quello che resta dopo questa catastrofe, dopo il silenzio, la notte e l’abbandono.
La complicità è un modo per sentire meno la solitudine o per coinvolgere l’ascoltatore?
Cerchi a ogni costo di catturare l’ascolto e lo sguardo, come faceva Sherazade nelle “Mille e una notte”. Più che la complicità, invochi la grazia e l’attenzione. Per questo, ogni parola dev’essere cesellata con tutto l’amore del mondo. Ogni nota deve suonare come le sirene d’Ulisse. Il livello della comunicazione, per quanto ti è possibile, deve restare sempre alto, chiaro e leggero, non può rinviare ai limiti minuscoli della tua biografia, ai tuoi nudi sentimenti, alle ombre dell’ambiguità: deve richiamare il destino e la sorte, la felicità, il sogno, il desiderio, il futuro e la scelta. Questa è l’unica complicità in cui puoi sperare e che ti puoi permettere.
Nonostante questa forma dialogata i tuoi testi si sviluppano in modo quasi ermetico, sono pochi versi che costituiscono un nucleo inscindibile.
La parola dev’essere “ermetica”, come dici tu, perché diventa capace di esprimere contemporaneamente tante cose, al di là del significato letterale. Ermes, infatti, è il dio della congiunzione tra i mondi più lontani e irriducibili, tra la terra e il cielo, tra il desiderio e il destino. È un grande comunicatore, un maestro della parola. Inoltre è il dio che ha rubato con un trucco il flauto ad Apollo. La parola cantata dev’essere anche “magica”, infatti: come una supplica alla buona sorte, come un’invocazione all’amore e alla fortuna. Cerco di convincermi che il piccolo grappolo di parole “magiche” nei miei testi possa portare o portarmi fortuna. O, almeno, mi piace illudermi che sia così. Ma questo è un ironico rituale scaramantico, uno scherzo che infliggo a me stesso e che ripeto sempre quando scrivo o quando suono.
Forse uno dei punti più alti del disco viene raggiunto con “Ulisse”, figura di cui trovo emblematica la scelta: a metà fra la voglia di tornare e quella sottesa a tutto il disco di una nuova partenza, sei d’accordo?
Il mio Ulisse è un povero cristo che non sa chi è, che si interroga continuamente, che a volte si convince di essere un signor Nessuno, che si arrabatta per sopravvivere, che vive continuamente nello sbalordimento della paura, che ha perso l’orgoglio del suo passato. Un eterno esule che non riesce più a distinguere la partenza dall’approdo e implora di essere strappato dalla furia dei venti che lo portano dappertutto. È un uomo sorpreso nel momento in cui capisce che navigare nel mare dei desideri è uno stupido spreco di vita, senza godimento e senza gloria. Così scende dal piedistallo e forse diventa più vicino e comprensibile, anche al suo stesso mito.
Dalla lontananza infatti non nasce una malinconia crepuscolare verso luoghi familiari o legati al ricordo, ma piuttosto una fuga con gli occhi e col pensiero verso altrove. Non il ritorno ma la voglia di spingersi più lontano.
Sì, ma la fuga non è verso qualcosa di indistinto. Questa immagine romantica dell’ebreo errante o dell’eterno pioniere che si spinge sempre più lontano, dappertutto e da nessuna parte, provoca dei disastri tra le persone. Questo è un concetto che ho cercato di rendere in un pezzo che si intitola “Nuvole”. Tu devi sapere cosa vuoi. Devi capire cosa desideri, altrimenti istituisci dei rapporti infelici in cui gli altri sono sempre degli intercambiabili e insipidi oggetti di un desiderio svogliato. La fuga, per me, è piuttosto un “lontano da qui”, lontano dalla ripetizione e dall’insignificanza del dolore. Questo motivo torna spesso nelle mie canzoni, anche se in modo sempre diverso.
Molta cultura del novecento, il secondo novecento, ha espresso il riconoscimento come ritorno, non solo i filosofi. Emblematico è Kundera ne “L’insostenibile leggerezza dell’essere” quando dice in tedesco “una volta è nessuna volta”. Nelle tue canzoni c’è distacco ma non c’è ritorno, tutto è visto una volta, permette solo di conoscersi e non “riconoscersi”.
Non ho mai sopportato Kundera. Forse, adesso che mi ci fai pensare, è per questa sua visione del tempo dell’uomo come una linea retta in cui è impossibile essere felici perché la felicità – come dice lui – è, appunto, il desiderio (irrealizzabile) della ripetizione, di un tempo circolare. Trovo che rassegnarsi a una idea simile sia immorale. È per questo che trovo un po’ repellenti e antipatici e improbabili i personaggi di questo suo romanzo fin troppo celebrato. Dev’esserci invece, insieme alla proiezione verso il futuro, anche una tensione alla felicità, una nostalgia di ritorno al primo pensiero, alla prima volta, al primo amore, allo stupore originario. Ci dev’essere una specie di “amor fati” per le cose e le presenze che ti hanno reso felice. Certo, in queste mie canzoni non c’è e non può esserci ripetizione e io parlo sempre di “quella volta” come dell’unica e irripetibile volta. Hai ragione. Non c’è ritorno. C’è piuttosto l’invocazione del ritorno, il desiderio del “riconoscimento” e questo si nota soprattutto in alcuni pezzi come “Trappole” o “Parole e notti”.
Del resto, anche la tua discografia punta a non ripetersi, a non riconoscersi, sia musicalmente che per gli pseudonimi usati negli album precedenti.
C’è una spinta a dire, ma anche un impulso altrettanto forte a confondermi e a sparire.
La tua scrittura ed anche il tuo modo di interpretare la canzone li ho trovati anomali nel mondo della canzone italiana. Approfondiamo un po’ il tema del cantautorato italiano, quale tipo di canzone d’autore ti affascina, quale senti più vicina?
Non mi piace il termine “cantautore”. Sembra che sia stato coniato in Italia da qualche rotocalco nei primi anni Sessanta, per indicare chi interpreta le canzoni che scrive. Sì, perché da noi non era ancora concepibile che un cantante potesse scrivere le sue canzoni. Un termine del genere forse non esiste in nessun altro vocabolario. È una parola pleonastica che non dice niente. Se è così, anche Marylin Manson o David Bowie o Willy DeVille sono dei cantautori. E allora? Cosa significa essere un cantautore? Non so. E non so neppure esprimere un giudizio sul “cantautorato” italiano perché, a parte Paolo Conte che è un genio eccentrico e inimitabile, ho sempre ascoltato e continuo ad ascoltare musica pop e rock, soprattutto inglese o americana. È un mio limite, lo so. Ma è così. Ho una grande simpatia per le vecchie canzoni di Domenico Modugno, di Adamo e di Sergio Endrigo. Apprezzo il lavoro di Andrea Chimenti e degli Offlaga Disco Pax, tanto per fare un po’ di opposti estremismi, e non si può dire che in Italia il paesaggio della musica pop sia desertico: anzi, credo che questo sia un momento irripetibile di grande avventura, grazie anche alle etichette indipendenti o all’impegno importante di divulgazione e di approfondimento svolto da certe riviste online come Mescalina che offrono un’informazione sempre più ricca, aggiornata e gratuita. Ma i miei punti di riferimento sono stati il rock progressivo, quello psichedelico o glam degli anni settanta/ottanta e poi il punk, il traditional irish, il grunge fino ad arrivare al trip hop, all’elektro, al club dance, al rap metal o all’underground rap. In questi giorni, a esempio, sto ascoltando Mark Lanegan, i Blonde Redhead, Antony and the Johnsons, i Sender Berlin … Nella mia playlist del momento c’è un grande disordine di generi e di stili, come al solito … E poi, in chiusura, voglio confidarti una cosa strana, stranissima, che non capisco: la musica che sento è molto diversa da quella che faccio, eppure credo di avere una certa stima per il mio lavoro di musicista e ne sono anche orgoglioso. Spero solo che questo sia un buon esercizio ironico di straneamento e che, prima o poi, riesca anche ad ascoltarmi più spesso.
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