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Ulisse e il Major Tom. Quindici anni dopo...


A quindici anni dalla pubblicazione di “a_vision”, abbiamo chiesto a Rodolfo di tornare sui suoi passi e di svelarcene gli arcani, canzone per canzone, secondo una track list inedita che rimescola la sequenza della prima edizione e tende un nuovo, sorprendente filo del discorso...



Nuvole è un attacco ironico al desiderio senza progetto e a questa società del consumo che costruisce chimere patinate e inconsistenti. Le nuvole sono le aspirazioni infondate, i desideri indotti.

Spesso noi siamo in preda a delle vaghe fantasie di novità, di libertà, di evasione. Ma poi non sappiamo esattamente cosa vogliamo e preferiamo adagiarci in uno stato di perenne svogliatezza. Guardiamo le nuvole che cambiano continuamente direzione e non ci rendiamo conto di quello che ci capita sotto il naso. Guardiamo le nuvole, diventiamo insensibili agli altri, diventiamo egoisti, perdiamo tempo, perdiamo gli affetti. Ma il bello è che le nuvole non hanno una rotta e si dissolvono prima o poi in qualche temporale.

E noi, a furia di inseguirle, ci troviamo con un pugno di mosche e ci accorgiamo che, per rincorrere certe illusioni, sprechiamo la vita.



Il mio Ulisse non è l’eroe che si spinge ai confini del mondo, assetato di conoscenze sempre nuove. Non è l’emblema del coraggio, della metis e dell’astuzia. È semmai il contrario.

Ulisse, in questa canzone che è anche un’interpretazione volante del mito omerico, è un povero cristo che non sa chi è, che si interroga continuamente, che a volte si convince di essere un signor Nessuno, che si arrabatta per sopravvivere, che vive continuamente nello sbalordimento della paura, che ha perso l’orgoglio del suo passato. Un eterno esule che non riesce più a distinguere la partenza dall’approdo e implora di essere strappato dalla furia dei venti che lo portano dappertutto. È un uomo sorpreso nel momento in cui capisce che navigare nel mare dei desideri è uno stupido spreco di vita, senza godimento e senza gloria. Così scende dal piedistallo e forse diventa più vicino e comprensibile, anche al suo stesso mito.


È una di quelle canzoni che se le spieghi non capisci niente, neanche tu che l’hai fatta.

Qui è importante la location. È Rimini. In inverno.

Rimini d’inverno, con le giostrine arrugginite e gli stabilimenti abbandonati, con i due moli che ondeggiano nella foschia, con il grigioperla del cielo che si discioglie nel bigiomare, con le solite anime in pena a passeggio che sembrano barcollare sulla sabbia, con gli spettri alticci che gattonano di notte sul ponte romano, con le lucine deliranti delle turbonavi lontanissime che fanno il verso allo skyline di Manhattan – vagolanti e ambigue stelle dell’Orsa.

Rimini d’inverno può essere un luogo assai pericoloso e disperatamente onirico. Qui si possono materializzare, in un sol colpo e senza scampo, i peggiori fantasmi e le più abbaglianti immagini. Ne sapevano qualcosa i Fellini e i Pantani.



a_vision è la canzone della nostalgia e della speranza.

C’è un senso di smarrimento come in quella storia struggente dell’astronauta sparato nello spazio che si è perso nell’universo e non c’è più nessuna navicella che possa salvarlo.

C’è l’attesa di un segnale. C’è il desiderio sempre più incerto del ritorno. In questa condizione di sospensione, la realtà perde ogni sua consistenza, e non si è più in grado di stabilire se le immagini evocate sono solo false visioni, ossessioni, ricordi oppure cose reali.

Questa silhouette dell’astronauta smarrito attorno a cui ruota l’intera canzone (e forse anche l’intero album) è una potente figura retorica del rock progressivo e Bowie, inventando il celeberrimo Major Tom, ne ha fatto un grande archetipo.

Ma ognuno di noi ha nel suo immaginario il suo astronauta smarrito.

Questo è il mio astronauta. Che è anche la metamorfosi ultima e non più epica della figura di Ulisse.



Parole e notti è una tipica chanson, alla maniera tradizionale, con tanto di fronte, coda e ritornello.

Parla dello smarrimento che di solito si accompagna ai sentimenti più forti che, viceversa, ci fanno sentire più deboli perché c’è qualcosa che ci porta via dal nostro mondo e dalla nostra stessa identità.

Ed è quello che esattamente vogliamo, ad esempio, quando ci innamoriamo. L’amore, di solito, ti trasforma e ti porta via.

La canzone è tutta giocata sull’invocazione di questa fuga.



Questo è un pezzo che parla di quei riti dell’incomunicabilità in cui le persone fingono di incontrarsi e di parlarsi mentre, in fondo, non si dicono niente e non fanno nessuna fatica per conoscersi e per avvicinarsi.

Nelle nostre città queste finzioni sono sempre più evidenti all’ora dell’aperitivo, in certi posti alla moda. Le ragazze fanno le odalische con tanto di ombelico, gli uomini fanno i conquistatori del pollaio con la cravatta nel taschino della giacca. Ma invece di ostriche e champagne si rimpinzano di cocktail incestuosi e patatine aggratis.

È un piccolo quadretto metropolitano di quando ti viene voglia di dissolverti nella foresta amazzonica: “lontano da qui”, appunto.



Le vere trappole nelle nostre vite sono le attese. Spesso abbiamo l’impressione di vivere una vita che non è la nostra, restiamo in un’attesa senza luce e non riusciamo a sentire veramente le persone che ci stanno accanto. Neppure noi stessi sentiamo. Restiamo in attesa di un non so cosa. Spesso siamo narcotizzati dal dolore e abbiamo bisogno di chiedere all’altro se siamo vivi, se ci sente, se ci vuole bene. La canzone è tutta in questa interrogazione che diventa un ritornello.



Il corridore cieco. Questa canzone è fatta solo di impressioni. È come quando senti un’ala di vento gelido sul collo. Oppure, quando ti senti minacciato da qualcosa e non sai di cosa si tratta. Oppure, quando improvvisamente ti trovi in una circostanza in cui tutte le persone intorno ti sembrano mostruose e rapaci. Questo pezzo parla di quell’esperienza del “perturbante” che, a volte, capita a ognuno di noi quando ci sentiamo incompresi o quando ci sentiamo usati o quando non riusciamo a capire cosa c’è oltre allo sguardo abissale delle persone e oltre alle loro parole. Anche i tuoi occhi ti fanno paura: quello che vedi o che potresti vedere. Ti viene una voglia forsennata di sparire al tuo stesso sguardo e a ogni umano avvistamento, per sottrarti al malocchio universale. E diventi, appunto, come un corridore cieco.

È un pezzo vagamente dark, con un’assonanza nel titolo che fa omaggio a Philip K. Dick e a Ridley Scott, e alle loro città pelagiche e tenebrose. Avrebbe potuto infatti intitolarsi anche Electric Sheep...



Brividi è il dialogo tra due persone ormai di fatto estranee. Una di loro è tutta compresa nella sua devozione dolorosa all’altro: lo cerca, lo chiama, lo invoca. L’altro non ne vuole sapere e segna continuamente le distanze, cerca qualcos’altro, cerca brividi.

Questa canzone contiene un piccolo thriller. Alla fine, si capisce che i due dialoganti (uno che vuole a tutti i costi avvicinarsi; l’altro che ostinatamente si allontana) sono in fondo la stessa persona.



È come sfogliare le pagine di un libro bislacco in cui non c’è una storia ma una serie di immagini, con uno sguardo che osserva le cose dall’alto. Così, visto dall’alto con lo sguardo di un dio astigmatico, tanto per dire, un tavolo in disordine pieno di portaceneri e bicchieri semivuoti di vodka sembra una calotta polare su cui galleggiano iceberg e mostri marini. E la fantasia si sbizzarrisce, vagando con l’occhio del satellite dall’isola di Corfu alle città invisibili dell’inconscio. Qui la musica – una tarantella balcanica che procede all’impazzata – è importante ed è fatta apposta per comunicare un certo senso di vertigine alcolica coi mulinelli dei violini e della fisarmonica.



L’attimo è una canzone che parla dello stupore e del raccoglimento.

È la pausa prima della vertigine. Oppure è il momento quando, mentre stai saltando nel vuoto, ti accorgi improvvisamente che sotto di te c’è il precipizio.

È il momento in bilico tra il prima e il poi, la vigilia della catastrofe o del colpo di fortuna. È l’attimo in cui tutta la tua vita ti scroscia addosso improvvisamente. In questi momenti, riusciamo ad avere una velocissima, rara e infallibile profezia del nostro destino.


© Rodolfo Montuoro, 2022

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