Intervista a Rodolfo Montuoro di Renata Rossi, “piùomeno pop”
Rodolfo Montuoro, musicista eclettico e colto, dopo l’ambizioso album “Nacht”, diviso in due “movimenti”, “Orfeo” e “Lola”, torna con un nuovo lavoro, “Voices”. L’album, ostico e di non facile ascolto, gode tuttavia di un fascino e di un incanto raro: la teatralità messa in scena nei suoi pezzi è accompagnata da intarsi musicali elettronici, da richiami intensi e ammalianti che si muovono creando intrecci visionari. I testi trattano temi ermetici e apparentemente inaccessibili in cui le voci utilizzate riescono ad andare oltre al significato delle parole utilizzate. Nell’album ritroviamo tra le altre quelle di due grandi maestri apparentemente lontani tra loro: Carmelo Bene e Roberto Pedicini. Le sensazioni scaturite dall’ascolto di “Voices” e la curiosità verso un lavoro così particolare, ci hanno spinto a rivolgere qualche domanda a Rodolfo.
Vorrei partire dal titolo, “Voices”. Le voci che utilizzi nell’album sono tante, ciò che esprimono va molto al di là delle parole e sembra che assumino una forma, una fisionomia reale o quantomeno immaginaria.
In realtà l’intero album ruota attorno a questo concetto: la voce non è soltanto veicolo del significato. Certe volte, quando c'è in essa un’intenzione o un sentire forte, è capace di esprimere molto di più rispetto a quello che semplicemente dice. Credo che si possa facilmente sperimentare questo paradosso ascoltando Dinah Washington, David Bowie, Maria Callas, Chris Cornell o anche Britney Spears quando, tanto per dire, canta Piece of me di Tricky. Gli esempi possono essere innumerevoli e ognuno di noi ha il suo repertorio. Ciò può avvenire non solo attraverso il canto: sappiamo tutti per esperienza che l’effetto si manifesta anche sulla scena della rappresentazione teatrale o cinematografica, quando certi attori riescono magicamente a trasmettere qualcosa d’imponderabile che prescinde dalle battute in copione. Marlon Brando, per fare un esempio, è sempre stato citato per questa sua capacità di debordare dalla scena e di toccare direttamente, singolarmente, lo spettatore. La voce agisce a tanti livelli: c’è un livello che significa, descrive, denota o racconta ma può esserci anche un altro strato più profondo e sottocutaneo che provoca immagini altre, non descritte, tutte nostre mentre siamo in ascolto: trame impreviste o rêveries che, grazie alla voce, entrano immediatamente in risonanza con le nostre emozioni. C’è un effetto tridimensionale o anche quadrimensionale nella voce che gli antichi conoscevano benissimo: non a caso, nelle rappresentazioni tragiche usavano la “maschera” per far venire a galla il più possibile le espressioni subliminali della phoné ma anche per far ribollire all’interno l’emissione sonora.
Sempre in relazione alla voce, credo che nel messaggio, nella comunicazione verbale, sia più importante il tono, la timbrica, il ritmo, la musicalità della voce che ciò che si dice. È così? E i silenzi, quanto contano, quanto sono importanti nella trasmissione di un qualsivoglia messaggio?
Se non ricordo male, Robert Fripp ha detto in maniera perfettamente lapidaria che nel silenzio esistono tutte le possibilità della musica. E che la musica è un modo per contenere il silenzio o dargli forma. La musica è la forma del silenzio. Potremmo dire la stessa cosa della voce e del canto. Qui c’è un passaggio dal nulla all’essere, dall’indicibile al significato, dal silenzio all’espressione. Ma noi sappiamo bene che il non essere, l’indicibile e il silenzio sono come l’infinito oceano rispetto alla goccia d’acqua. Secondo me, ogni musicista, ogni poeta non dovrebbe mai perdere quest’umile consapevolezza. Possiamo esprimere anche le più meravigliose melodie o le parole più vere e toccanti ma non è niente, niente di niente rispetto agli immensi oceani del silenzio. È pur vero che senza la musica, la voce o il canto il silenzio sarebbe inavvertibile. Ma il poeta e il musicista non possono fare a meno del silenzio per comporre le loro trame.
Tra le voci utilizzate ci sono quelle di due grandi maestri: Carmelo Bene e Roberto Pedicini, diversi tra di loro e unici, capaci di costruire opere, emozionare milioni di persone. Mi spieghi il motivo di questa scelta?
Carmelo Bene e Roberto Pedicini, secondo me, sono la “prova” di quanto abbiamo detto a proposito di ciò che, nella voce, sconfina oltre il significato. Provate ad ascoltarli. Carmelo Bene ha esercitato la sua phoné per smantellare un’idea del teatro come “rappresentazione”, (o)mettendo continuamente in scena l’annullamento del senso e dell’io, con la sola sua voce usata a mo’ di scandaglio, verso quel vuoto o quel silenzio che, come lui dice, “è la fine di ogni arte, di ogni storia, di ogni mondo”. Roberto Pedicini, pur avendo tutte le stimmate dell’attore, si è invece voluto annullare dando voce alle grandi star che ha doppiato (Kevin Spacey, Jim Carrey, Javier Bardem, Denzel Washington eccetera). Come mai? Perché, forse, per raggiungere più profondamente l’uditorio del mondo devi necessariamente sparire come soggetto (sociale, economico, politico…) e farti unico come la tua voce. (E questo vale ancor di più nell’epoca di Facebook.) Insomma, pur nell’inevitabile ed evidente diversità, e anche se l’accostamento è senz’altro anacronistico, per me Carmelo Bene e Roberto Pedicini sono entrambi votati al dileguamento, entrambi in grado di suscitare vertigini, intimità e pelle d’oca, entrambi capaci di usare la voce come uno strumento potente, commovente e sofisticatissimo. Sempre oltre il significato delle parole.
Cos’è per te la phoné, tanto cara a Carmelo Bene?
Il termine phoné ha una larghissima estensione. Deriva dal greco e indica sia la voce in generale (dell’animale, dell’uomo, di dio) che l’insieme dei fenomeni sonori. Definire la phoné non è tanto facile perché è stata anche oggetto di una fortissima rimozione nella nostra cultura. Per lo più, da Platone in poi, è stata soprattutto phoné semantiké, legata cioè a una semantica, a un significato, a un ragionamento, a un logos. Così è stata disincarnata e sterilizzata del suono fisico, del silenzio che contiene, del corpo, dell’individualità. Eppure sappiamo per esperienza che la voce di ognuno di noi è irriducibile, riconoscibile, unica come un’impronta digitale. Sappiamo che, con i suoi toni, le sue pause, le sue frequenze, le imperfezioni, rivela di noi stessi molto ma molto di più di ciò che ci diciamo nella conversazione sociale. Ecco, Carmelo Bene e Roberto Pedicini sono riusciti – pur dileguandosi – a restituire corpo e singolarità alla parola, alla vocalità, spalancando – ognuno a suo modo – una dimensione immaginaria, imprevedibile e polimorfica.
Andiamo alla musica, cos’è che ascolta Rodolfo Montuoro? Musicalmente quali sono i cantautori/band che hanno ispirato il tuo lavoro?
In questa particolare epoca della mia vita, amo ascoltare il nulla. Davvero. Lo dico senza ironia, senza iperbole. E forse, oggi più che mai, immersi come siamo nello streaming universale, quest’esperienza è finalmente possibile. Evviva!
“Fall City” è il titolo del tuo primo brano, ma, come gli appassionati sapranno, anche uno dei luoghi che ha ospitato le riprese di “Twin Peaks”. Il tuo pezzo ha anche molto di cinematografico, crea una colonna sonora emozionante e coinvolgente. Vuole essere un omaggio a Lynch?
Certo. A proposito di polimorfismo, Lynch non poteva di certo mancare. Fall City, l’autentica Twin Peaks, per me è come un Olimpo in miniatura in cui si giocano cosmologie, mitologie, esperimenti antropologici e crimini sentimentali, fatali contaminazioni di mondi e oltremondi. La sacra follia visionaria di Lynch è stata per me, durante gli anni di incubazione di “Voices”, un’istigazione continua. Nel mio piccolo, dovevo necessariamente rendergli omaggio. Tra l’altro, nell’opera di Lynch il discorso sulla voce segue un canale criptico, parallelo a quello dell’immagine. La voce è spesso deformata, truccata, amplificata, travestita: basti pensare all’agente Gordon Cole (impersonato dallo stesso Lynch) che parla sempre urlando, provocando continuamente uno straneamento negli interlocutori, o ai versetti svenevoli delle sue cantanti nei siparietti di fine puntata o a quelle voci sataniche, rallentate, invertite fino all’indecifrabile in bocca ai mostri della Loggia nera o, ancora, alle dizioni strampalate di tanti personaggi. Insomma, Lynch utilizza intenzionalmente la voce per dar fuoco alle polveri di un potenziale visionario già di per sé straripante ed esplosivo.
Nel tuo percorso creativo, nasce prima il testo o la musica?
Per me il testo è sempre musica, sempre. Non c’è altro che musica: nella lettura, nella scrittura, nell’ascolto, soprattutto nel dialogo interiore.
Chi è “Samael”, il personaggio che dà il nome al tuo terzo brano? Si parla di diavoli, arcangeli, figure incomprensibili all’uomo ma forse molto più vicine di quanto si possa credere…
Samael è un personaggio biblico, destinato al silenzio, al non-essere e al vuoto: è l’amante segreto di Lilith, bonario e sterminatore; è l’angelo della morte e il sicario di dio, devoto fino al fanatismo, ribelle fino all’insurrezione, ragionatore nel portare avanti la sua missione, folle fino all’accecamento. Votato contemporaneamente al bene e al male. È una figura infelice e destinata alla sconfitta. Demone e insieme arcangelo, incarna tutte le qualità dell’umano, quelle cortesi e quelle distruttive. Può darsi che sia il calco originario di Adamo e, proprio per questa sua natura increata, indecisa, non può prendere posizione e, dunque, non può vivere. In questa sottrazione sta anche il suo potere e la sua forza o l’estrema possibilità di riscatto. In “Voices” una figura così raggrumata, così scultorea, trova piena cittadinanza.
Nel tuo disco ciò che risalta sono i contrasti a cominciare dalla copertina in cui statue antiche sono circondate da fasci di luce che sembrano provenire da una discoteca, l’utilizzo di musica d’avanguardia e dell’elettronica accompagnata da testi arcaici, profondi e intensi. Gli opposti possono trovare un punto d’incontro, o un punto d’incontro non esiste?
Il punto d’incontro, probabilmente, non esiste. La conciliazione, la sintesi è l’invenzione dei filosofi pigri. È questa la maledizione di Samael, che cova tutto in sé. Conviene invece tenere sempre acceso il contrasto, farlo lavorare, farlo agire, portarlo al più alto livello creativo, produttivo, poietico. Far funzionare gli opposti come i poli di una bobina elettrica. Dare sempre “voce” al contrasto. Come ci insegna Lynch, è proprio così che si sprigiona l’immaginazione.
È in programma un live tour? Puoi anticiparci qualcosa?
Sono troppo geloso di “Voices” per andarmene in tour. Per ora, almeno.
Intervista a Rodolfo Montuoro di Renata Rossi, “piùomeno pop”, 2018
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