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Un’altra vita. Poesia e identità

Intervista di Francesco Mollo a Rodolfo Montuoro, “Quotidiano della Calabria”

“Spesso siamo infelici, gretti e paurosi perché ci ostiniamo a vivere una vita sola e diamo troppa importanza a essa.”


Chi è Rodolfo Montuoro?

In una canzone che ho scritto qualche anno fa e che si intitola “Ulisse”, il protagonista chiede: “Dimmi chi sono/nella mia vita e nella tua”. In effetti, l’interrogazione su di noi dovrebbe chiamare in causa anche gli altri. Sono convinto che la discrezione verso se stessi potrebbe essere una buona virtù. Perché, se ci si dimentica più spesso di se medesimi, si crea più spazio e più attenzione per gli altri (che sono quasi sempre più interessanti di noi). E può darsi che ci si senta anche più liberi. Ma ormai, tutto sommato, ho l’impressione che questa tua domanda – almeno per me – non sia così importante.

Con tutte le cose che fai, non hai problemi di identità?

L’identità non dev’essere un problema. Quando diventa un problema vuol dire che il tuo rapporto con il mondo esterno comincia a vacillare. Intendo dire che l’identità può anche diventare una prigione, un luogo claustrofobico, un modo per essere esclusivamente se stessi e nessun altro. Io credo che ognuno di noi abbia il diritto a molte vite. Dovrebbe essere un principio nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo. Spesso siamo infelici, gretti e paurosi perché ci ostiniamo a vivere una vita sola e diamo troppa importanza a essa. L’anno scorso, ho dedicato il mio album rock “Hannibal” proprio ai temi dell’identità e ad alcune “mitologie” del cambiamento.

È necessario per continuare a sentirti te stesso, fare tutte le cose che fai?

Credo che la necessità di sentirsi se stesso potrebbe essere anche faticosa. Se poi passiamo dalla cognizione dell’identità alla definizione dell’”esserci” nel nostro piccolo angolo di mondo, potrei dirti che io non sento nessuna dissociazione nel mio modo di vivere. Vivo come te e come innumerevoli altri. Non c’è niente di speciale. Sono un poeta, sono un musicista e un intellettuale, ovvero sono uno che si procura il suo sostentamento lavorando tutti i giorni e rigorosamente nella cosiddetta “industria culturale”, provo piacere a ruminare i libri, a fare buone conversazioni di varia umanità, ascolto continuamente musica di ogni genere, coltivo lo sguardo fino all’astigmatismo con tutte le arti visive e mi sento sempre curioso. Ed è qualcosa che ha a che fare col desiderio e con il godimento. Non c’è niente di speciale in tutto questo. Credo che per tutti noi, negli ultimi decenni, sia avvenuta una mutazione genetica. Non esistono più le identità sociali e irriducibili di un tempo, il borghese, l’intellettuale, il contadino, il praticone. E, forse, non esistono più neppure i soliti tipi psicologici. Non c’è più niente di scandaloso o disdicevole se uno che si mantiene nel mercato delle idee naviga attaverso le arti e i generi, se passa ad esempio dalla musica alla letteratura o viceversa. Anzi, a parte il discorso su di me, credo che coltivare diverse identità culturali sia un bene e non sia un danno per nessuno. Acuisce la comprensione reciproca, moltiplica la comunicazione e la rende più “erotica” e avvincente. Così, ad esempio, quando qualcuno mi chiede con qualche meraviglia come mai c’è una tale distanza tra un mio disco come “a_vision” (tutto incentrato sullle sonorità della tradizione celtica, con archi, flauti e cornamuse) e un album come “Hannibal” (sospeso tra il rock progressive, il tribal jazz e l’elettronica), cerco sempre di spiegare come meglio posso che – nella vita così come nell’arte – dev’essere possibile attraversare gli steccati tra i modi di essere, i codici e le forme di espressione.

Qual è il “vero Rodolfo”, in quale ambito realizzi la tua essenza più genuina?

Io sono un poeta. E proprio perché poeta sono necessariamente un musicista. E proprio perché musicista sono necessariamente un comunicatore. In quanto poeta, per me è piacevolissimo scrivere. Ma so bene che spesso la scrittura è desolatamente incapace di disegnare gli innumerevoli piani del mondo e anche di immaginarseli. Quindi, per me è necessario esprimermi in tutti i modi possibili (quando ne vale la pena, naturalmente), con la musica o perfino col silenzio. E poi ho anche imparato a rivalutare la dimensione – profondamente artistica – della parola condivisa, della conversazione, dell’oralità. Anche un dialogo tra due amici può essere un capolavoro letterario. La scrittura o la musica sono per me strumenti per conoscere e per comunicare. Li uso solamente quando sento l’urgenza di dire più intensamente qualcosa a qualcuno, di immergermi come un palombaro o di volare come un razzo, per andare a conoscere la luna oppure per precipitarmi del pandemonio spirituale delle persone che mi stanno a cuore. A volte, prima che questo avvenga e che si materializzi in un verso (anche in un unico verso), in una lettera o in una serie di accordi musicali, passano anche dei mesi o degli anni. Ma non mi importa del tempo: a me piace molto la distillazione, la parola che lentamente si fa un tutt’uno con le melodie del desiderio, del sogno o del presagio.

Tu sei anche poeta... e nel pronunciare questo sostantivo mi viene in mente una frase di Fabrizio de André a proposito di quelli che scrivevano poesie (citava Benedetto Croce sul fatto che fino all’età dei diciotto anni tutti scrivono poesie ma vale, secondo me, anche per i cantautori e gli scrittori in generale), dai diciotto anni in poi rimangono a scriverle due categorie di persone ... Serve a qualcuno la poesia? O solo a chi la scrive?

Le poesie rimangono a scriverle i cretini e... appunto i poeti, diceva infatti Croce. Intanto De Andrè, che per non incorrere nell’ironia crociana finiva poi per dichiararsi cantautore (anche se lui stesso confessa che avrebbe voluto dirsi poeta), ha fatto uno dei suoi album più belli traendo linfa dalla poesia e riportando magistralmente in musica – tanto per dire – L’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, un capolavoro del repertorio poetico di tutti i tempi. E Croce, il prosaico Croce, ha scritto un’esemplare storia della poesia, un saggio sulla lirica popolare, un altro sulla poesia “antica e moderna” e un libro molto fortunato ai suoi tempi intitolato Poesia e non poesia, in cui difendeva – contro la “non poesia”, appunto – il suo valore nel repertorio delle arti e dei saperi, proprio come una delle manifestazioni più alte e più “vere” dello spirito umano. Quindi, possiamo anche sfoderare mille vezzi e schernimenti, ma nel caso di Croce e di De Andrè abbiamo a che fare con due autentici cultori della poesia. E De Andrè è stato lui stesso un grande poeta. E ha voluto esserlo. La poesia – come molti hanno detto – è uno strumento infallibile di conoscenza della realtà, anzi delle realtà. Ed è anche un modo formidabile ed appassionante per descriverla. Forse è anche l’unico modo per dare conto, istantaneamente e con un fulminante movimento “semantico”, della pluralità e della contraddittorietà dei mondi in cui ci troviamo a vivere, non solo dei mondi reali o dei mondi attuali ma anche dei mondi possibili e di quelli futuri. La poesia, a volte, il futuro se lo inventa. E poi lo realizza. Nella poesia infatti c’è quasi sempre anche la profezia. Quindi, per tornare alla tua domanda, direi che chiedere se può essere utile la poesia è come chiedere se davvero serve l’acqua o l’ossigeno.

Sei a pieno titolo, se sopporti la definizione, “un cervello in fuga” dalla Calabria. Eppure, al contrario di molti che hanno lasciato questa regione, non ne parli con malinconia, non sogni il ritorno. Non sembra esserci traccia di questa terra nei tuoi lavori... Non la ami? O non ami la sua immagine stereotipata che raccontano sempre quelli che non ci vivono più?

In Calabria ho vissuto solo una parte della mia vita: l’infanzia e la prima giovinezza. Devo dirti che non ho nessuna malinconia semplicemente perché ho portato subito con me, nella mia simbolica “valigia” stretta con lo spago, tutto quello che mi serviva. Un quadrifoglio della Sila Piccola che ha fatto il giro di tutti miei cassetti e di tutti i miei portafogli, un sassolino della spiaggia di Copanello (da non confondere con Copacabana) che profuma di Mare Jonio (o, almeno, io mi illudo che ancora sia così). Mi sono portato appresso gli affetti più importanti. Ma, soprattutto, c’è una cosa che è sempre insieme a me e che non mi fa mai sentire nostalgia. Ed è il linguaggio, la “parlata”, ossia quel modo tutto particolare di esprimersi dei calabresi, soprattutto dei catanzaresi. È una forma mascherata e quasi sottocutanea di eloquenza, con un’ironia perenne nella musica dell’accento, nell’abbraccio della voce che crea subito familiarità, nel modo riservato di rivolgersi alle persone estranee, nei cerimoniali della cortesia, nella scelta delle parole più paradossali per nominare anche le cose ordinarie, nel senso leggerissimo (a volte quasi invisibile) ma incessante dello sfottò. Questa è la mia Calabria permanente e non mi serve nient’altro. Almeno per ora…

La tua identità multipla (consentimi questa psicologia da rotocalco rosa) sembra denunciare una spasmodica ricerca della verità. E poi, nell’ascoltarti, nell’osservarti mentre parli, che ponderi prima di aprire bocca, sembrerebbe che in fondo la verità l’hai trovata. Eppure sei troppo giovane perché sia così...

Sì, ma come direbbero e giurano i testimoni in tribunale (sia quelli della difesa che della parte avversa), soprattutto i testimoni falsi: io so tutta la verità, nient’altro che la verità... Ma la cosa più vera e più importante sta tutta in quel “nient’altro”…


Intervista di Francesco Mollo a Rodolfo Montuoro, “Quotidiano della Calabria”, settembre 2009

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